lunedì
16 Giugno 2025
L'OBLÒ

Le piattaforme offshore al largo di Ravenna, un impatto pesante e un futuro incerto

Le strutture esistenti sono 42, ma i giacimenti sono in esaurimento. Per evitare i costi di smantellamento, Eni li utilizzerà per lo stoccaggio di CO2.

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Piattaforma Angela Angelina Ravenna 1

Nei giorni scorsi Eni ha annunciato che entro due anni smantellerà una decina di piattaforme per l’estrazione del gas in alto Adriatico. Le strutture si trovano su giacimenti esauriti, pertanto l’azienda ha deciso di dismetterle. Non è noto di quali si tratti.

Le piattaforme per l’estrazione di gas metano sono una presenza tipica dell’orizzonte litoraneo ravennate. Alcune sono ben visibili, come Angela Angelina che si trova a meno di 2 chilometri dalla spiaggia di Lido di Dante; altre sono più piccole e lontane, altre ancora sono troppo distanti per essere avvistate dalla costa. Nelle acque al largo della nostra provincia ce ne sono 42, tutte di Eni, che è l’unico operatore presente nella zona. La prima fu costruita nel 1964 e misurava 5×5 metri. Oggi, invece, le più grandi strutture offshore tra Ravenna e Cervia hanno estensioni tra i 25 e i 165 metri per lato, con altezze superiori agli 80 metri, e possono ospitare fino a 40 lavoratori.

Il settore delle estrazioni di gas è molto sviluppato nel ravennate e ha connotato l’intero territorio. Le piattaforme generano circa tremila posti di lavoro in provincia secondo Unioncamere, ma anche gravi problemi ambientali come l’inquinamento, la subsidenza e l’erosione della costa. Una conseguenza evidente soprattutto a Lido di Dante, dove la spiaggia è ormai ridotta all’osso, nonostante le opere di difesa e di ripascimento a cui ha contribuito economicamente la stessa Eni, nel tentativo di compensare i danni provocati dalle sue attività. Inoltre il distretto energetico del fossile ha influenzato la percezione e la gestione della fascia marittima locale: in un’area geografica già sacrificata alle attività estrattive dei colossi dell’oil&gas, è più facile introdurre altre opere analoghe. Basti pensare all’esempio del rigassificatore di Punta Marina, che ha richiesto l’installazione di una piattaforma di 54×28 metri, del peso di 2800 tonnellate e a circa 8 chilometri dalla costa, per permettere l’attracco dell’enorme nave BW Singapore e delle altre imbarcazioni che la riforniranno. Insieme a una diga protettiva alta quanto un palazzo di quattro piani.

Lo scorso anno a Piombino, dove è stata prevista la costruzione di un’opera simile, ci sono state accese e partecipate proteste dei cittadini, tanto da costringere le autorità locali a chiedere lo spostamento del rigassificatore dal 2026 a Vado Ligure; dove a sua volta sono in corso delle mobilitazioni che non rendono affatto scontato il successo dell’operazione. A Ravenna, invece, l’opposizione contro il rigassificatore è stata minoritaria e pressoché ignorata: i lavori di costruzione sono in fase avanzata e la BW Singapore dovrebbe arrivare entro il prossimo febbraio. Addirittura, per un certo periodo il governo italiano avrebbe pensato di spostare proprio a Ravenna il rigassificatore tanto osteggiato nel Tirreno. Dove ne è stato già accolto uno, si pensa che se ne potrebbe piazzare un secondo.

In sostanza sembra che, in un territorio già alterato dalla presenza delle attività estrattive di fonti fossili, sia più semplice giustificare e far accettare la costruzione di altre infrastrutture pesanti. Questo anche oggi, nonostante le conseguenze della crisi climatica – provocata dall’inquinamento delle stesse fonti fossili – abbiano reso evidente la necessità della transizione energetica a favore delle rinnovabili. E nonostante proprio in Romagna, con le alluvioni, tali conseguenze siano più eclatanti che altrove.

Tuttavia, tornando alle piattaforme offshore per il gas, negli ultimi anni si è molto discusso sul futuro incerto di questo settore. Oltre alla transizione energetica, a mettere in discussione la vita di queste strutture c’è l’esaurimento naturale dei giacimenti. Al largo di Ravenna, i pozzi attualmente produttivi sono circa un centinaio; ma molti di più sono quelli abbandonati perché esauriti. Per Eni smantellare le piattaforme sarebbe un costo; e come tutte le aziende, se può, preferisce evitarlo. Per questo, alcuni giacimenti vuoti saranno utilizzati per lo stoccaggio dell’anidride carbonica. Avviata lo scorso settembre, l’operazione per ora sta catturando solo la CO₂ emessa dalla centrale Eni di Casalborsetti, stimata in circa 25 mila tonnellate all’anno; ma entro il 2030 sarà sviluppato un progetto industriale per stoccare fino a 4 milioni di tonnellate l’anno di CO₂ a 3000 metri di profondità, provenienti da ogni parte d’Italia. L’obiettivo è arrivare a sotterrarne 16 milioni all’anno nel decennio successivo: si tratterebbe di una parte consistente dei 410 milioni di tonnellate annue di CO₂ emesse nel nostro paese. In questo modo l’anidride carbonica, che è uno dei gas più climalteranti, non resterà più in atmosfera a contribuire al riscaldamento globale. E il distretto di Ravenna, dopo essere stato per oltre mezzo secolo uno dei principali produttori nazionali di fossile, diventerà il luogo dove le emissioni inquinanti del fossile stesso finiranno nella profondità della Terra. Ma ciò non basterà a invertire la rotta, finché non si smetterà del tutto di utilizzare gas e petrolio.

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