Il giornalista Carlo Raggi: «Va verificata ogni fonte, a partire dalle forze dell’ordine. Il nerista? Sfrontato per farsi aprire le porte»
Il nerista è un po’ diverso dagli altri giornalisti. Lo dice chi è stato la principale firma dei pezzi di nera e giudiziara sulle pagine de Il Resto del Carlino a Ravenna per oltre trent’anni: «Ai colleghi in redazione ho sempre detto che nel mio settore non mi arrivavano le notizie servite con i comunicati stampa – dice Carlo Raggi –. Bisognava farsi un culo così per farsi aprire porte che nessuno vuole aprirti. Devi essere sfrontato». Magari pure qualcosa in più, a giudicare dalla definizione: «Mi sono sempre considerato figlio di due puttane, non solo di una perché non devi credere nemmeno a te stesso altrimenti ti fai prendere per il sedere da tutti».
Vanno messe in dubbio anche le voci ufficiali delle forze dell’ordine?
«È capitato più di una volta che ai processi per direttissima ti accorgevi che la versione data dalle forze dell’ordine il giorno prima era del tutto diversa. Polizia e carabinieri danno la loro verità ma a volte sono bugie».
E come si bilancia?
«Il giornalista di giudiziaria deve fare sempre le sue indagini cercando sempre la doppia fonte se non anche la tripla. Ad esempio dopo la classica conferenza stampa per l’esito di una operazione se ti danno tutti gli elementi e magari c’è una confessione allora si può anche considerare quella la verità ma se c’è solo l’ordinanza del Gip almeno vanno sentiti difensori e lo dice uno che in carriera ha anche fatto di questi errori. Al giornalista serve una grande esperienza per non credere agli asini che volano».
Gli ultimi due omicidi in provincia sembrano piuttosto complicati (vedi correlati). Ma è dal 1998 che un delitto non resta irrisolto. Lo sbirro è diventato più bravo o il killer più distratto?
«Fino a quando non erano operative al massimo livello tecnologie come la ricerca del Dna, l’utilizzo di telecamere o i sistemi di geolocalizzazione, l’investigazione era molto difficile se mancava un collegamento tra vittima e assassino. Se ti manca un collegamento e non hai il supporto della scienza non si va avanti. Poi ci sono anche casi in cui il lavoro investigativo non fu fatto nel modo migliore».
Un caso tra i tredici del passato?
«La morte di Luigi Bezzi a Mandriole nel 1998 (vedi tra i correlati, ndr). Ero lì, sull’argine del canale Destra Reno e quando spostarono il cadavere per metterlo nella bara di zinco si accorsero che sotto c’erano due bossoli della pistola. Era una cosa da trovare prima nel corso del sopralluogo e non da scoprire per caso quando i necrofori se ne vanno…».
Le nuove tecnologie risolvono tutto?
«Non siamo di fronte all’oracolo di Delfi. Vanno utilizzate con professionalità e purtroppo non tutti gli operatori hanno le stesse professionalità. A volte sono capitati anche errori grossolani».
Qual è l’esempio?
«Nel 1980 scompare Antonia Brunetti. La voce che circola è che il marito l’abbia ammazzata a e bruciata nell’inceneritore dell’ospedale. Poi arriva un biglietto agli investigatori che dice di cercare sull’argine sinistro del Montone a San Marco. Si scava ma non si trova nulla. Poi quattro anni dopo si rendono conto di aver cercato sull’argine opposto, spostano le ricerche e trovano i resti di un corpo che risulta essere quello della donna scomparsa».
Il tanto citato delitto perfetto quindi…
«Spesso è più l’imperfezione delle indagini che lo rende irrisolto».
C’è un caso tra quelli seguiti in carriera che ha lasciato un segno nel giornalista?
«Il rapimento di Minguzzi ad Alfonsine nel 1987. Un ragazzo di 21 anni ucciso poche ore dopo il sequestro, ma i rapitori presero in giro la famiglia per giorni fino a quando venne ritrovato il cadavere. Come sempre quando si è sul fronte cerchi di non farti coinvolgere dai casi e infatti mi colpisce più adesso: nessuno si ricorda di questo ragazzo che in fin dei conti era anche un ausiliario dei carabinieri».
Che ruolo hanno i media in queste vicende?
«Con i canali televisi all-news e ancora di più con i mezzi online le testate hanno necessità di dare una notizia in più ogni edizione del tg oppure ogni minuto portando a una sovraesposizione degli inquirenti. È inevitabile accada. E se si trovano magistrature o investigatori che cadono nel tranello il caso esplode e poi sei portato a strafare e magari si rischia ancora di essere accusati perché mediaticamente è interessante accusarti».
Solo tv e web sono i cattivi? Sembra la difesa d’ufficio del cronista per la vecchia carta…
«Sono le tv che fanno i processi sullo schermo e non sono cose da fare. Il linguaggio giudiziario è più assurdo sui media televisivi rispetto alla stampa. La vicenda giudiziaria è una cosa molto seria e fatta in certi modi rischia di incidere negativamente sull’istituzione magistratura. Quello che forse è accaduto con il caso Cogne».
È mai capitato di danneggiare un’indagine per uno scoop?
«Mai, prima di essere giornalista sono cittadino e prima della notizia mi interessa il risultato dell’indagine. È capitato che avessi una notizia e abbia aspettato a pubblicarla perché mi era stato chiesto di non farlo per non fare danni. Così come è capitato che invece la pubblicazione al momento giusto abbia aiutato la procura».