Nel corso di questi ultimi anni l’area è stata interessata da fenomeni di erosione, non solo naturale, ma soprattutto dal transito e dalla sosta di veicoli al suo interno
Sono stati affidati e verranno completati entro il mese di settembre i primi interventi di salvaguardia della duna posta all’altezza della Colonia Varese, in area di proprietà comunale
I lavori sono necessari per mettere in sicurezza le rare specie vegetali presenti e la consistenza stessa della duna. Gli interventi prevedono la messa a terra di un sistema di palificazione in castagno congiunti da una doppia orditura di corde naturali resistenti alla salsedine, finalizzato a impedire l’accesso alla duna stessa, oltre alla predisposizione di una apposita segnaletica monitoria e informativa.
La duna, che rientra nella perimetrazione della Zona Speciale di Conservazione Pineta di Cervia del Parco del Delta del Po Emilia-Romagna, rappresenta una delle pochissime dune vive rimaste nel litorale nord adriatico e ospita importanti specie vegetali, vere e proprie emergenze floristiche.
Nel corso di questi ultimi anni l’area è stata interessata da fenomeni di erosione, non solo naturale, ma soprattutto dal transito e dalla sosta di veicoli al suo interno e da scarichi abusivi di rifiuti vari, su cui si è intervenuti, limitando il fenomeno quando ciò è stato possibile.
L’Amministrazione cervese, in attesa di un piano complessivo di riordino dell’area ospitante l’edificio ex Colonia Varese, di proprietà regionale, ha deciso che la situazione necessita della messa in atto di un piano di salvaguardia del sito protetto, che conserva al suo interno sette habitat del Sistema Natura 2000, di cui due prioritari.
Oltre a questi primi interventi, è stato affidato allo Studio Silva di Bologna anche uno studio naturalistico, che si prefigge la finalità di raccogliere le informazioni scientifiche sullo stato di consistenza e di conservazione della vegetazione reale e degli habitat presenti e ricevere indicazioni progettuali e tecnico-economiche sulle modalità di potenziamento della vegetazione degli habitat dunali e retrodunali, in coerenza con le misure specifiche di conservazione vigenti della Pineta di Cervia.
«Aver lavorato a ranghi ridotti per tutto ciò che Covid non era, ha avuto delle conseguenze»
Raffaella Angelini
Per più di vent’anni Raffaella Angelini, forlimpopolese classe ‘58, è stata a capo dell’Igiene Pubblica di Ravenna e della Romagna, affrontando nella sua lunga carriera sfide formidabili, come l’epidemia di Chikungunya del 2007 e la pandemia di Covid-19. Da poco in pensione, l’abbiamo intervistata per ripercorrere la complicata storia degli ultimi anni di sanità pubblica romagnola e per cercare di capire quali saranno le sfide del futuro. Lei si è specializzata nel 1988 in Igiene e Medicina Preventiva, orientamento Sanità Pubblica. Solitamente chi studia medicina non pensa a questa carriera.
«Dico sempre che, pur avendo sbagliato completamente facoltà, ho fatto un’ottima carriera! Medicina è stata quasi un atto dovuto: ero brava a scuola, c’erano le aspettative dei genitori… Ma la mia attitudine non era verso l’assistenza individuale alle persone. Forse avrei preferito studi umanistici. Così ho cercato una strada alternativa, indirizzando il mio interesse per la politica verso un ambito più sociale, in cui l’oggetto dello studio non fosse il singolo, ma la collettività. Igiene dava questa prospettiva. Non mi sono mai pentita, anzi: mi sono divertita tantissimo. Ma poteva essere davvero un vicolo cieco: trovarsi al quinto anno di medicina e scoprire di non voler fare il medico può essere abbastanza disturbante». Questa specializzazione era considerata un ambito minore dai suoi colleghi?
«Certo. Lo è anche adesso. Non si sceglie Igiene pensando di arricchirsi o di fare libera professione. Chi fa il medico pensa al camice bianco e al fonendoscopio attorno al collo: è l’immaginario collettivo. Questo è un altro tipo di lavoro… Durante la pandemia ci siamo accorti tutti dell’importanza di avere servizi di prevenzione efficienti». Ha affrontato gli anni del Covid. Non riesco a immaginare cosa significhi gestire una pandemia mondiale da direttrice responsabile della sanità pubblica. Come si fa a resistere all’urto?
«La pandemia è stato un evento che è andato oltre la nostra immaginazione. Avevamo avuto in passato già altre pandemie, come la cosiddetta “suina” del 2010-2011, ma nessuna ha avuto le caratteristiche di gravità clinica del Covid. L’unico strumento che all’inizio abbiamo avuto per combatterla, era lo stesso usato dai veneziani al tempo della peste: la quarantena. Per la società occidentale, che pensa di dominare il mondo, trovarsi in una situazione così enorme, gestibile solo attraverso misure trecentesche, è qualcosa che ha scardinato ogni certezza. Ma, come abbiamo notato con l’alluvione in Romagna, durante le situazioni di grande emergenza nelle persone impegnate nei soccorsi scatta un senso di responsabilità e di solidarietà che normalmente non c’è. Se avessimo queste stesse capacità anche in “tempi di pace”, il mondo sarebbe migliore. Invece non è così. Siamo tornati a essere quello che siamo: individualisti, restii a comprendere la complessità». Si riferisce ai complottismi nati durante il Covid?
«Per molti la spiegazione più semplice era: c’è qualcuno che vuole farci del male, che introduce un virus per controllarci. Queste derive, anche per chi non ci crede, generano dubbi, diffidenze. E tutto diventa più difficile. Si può parlare male dei vaccini o del progresso, ma il fatto che a dicembre 2019 si sia scoperto un nuovo virus, e che a dicembre 2020 fosse disponibile un vaccino in grado di fermare il numero dei morti, questo è qualcosa che, solo qualche anno fa, sarebbe stato inimmaginabile. Bisognerebbe far tesoro di questo, ricordarsene; ma tendiamo a rimuovere ciò che ci ha fatto star male. Adesso del Covid non si vuole più sentir parlare. Non c’è nessun motivo al mondo per cui abbiamo smesso di far uso di gel idroalcolico per lavarci le mani. Ci sono altri virus che si trasmettono ugualmente. Ma non lo fa più praticamente nessuno». Spesso queste risposte irrazionali hanno una loro ragione, ma sono state trattate con sufficienza dal mondo dei professori. La posizione No Vax, illogica e pericolosa, forse partiva da una mancanza di ascolto da parte dei medici.
«Il tema è davvero grande… I no vax non nascono con la pandemia. L’ostilità nei confronti dei vaccini esisteva già ai tempi di Jenner, alla fine del Settecento. Il vaccino si somministra a una persona sana, che può giocare con la fortuna. Si dice: io non mi ammalerò, perché devo inocularmi qualcosa che potrebbe produrmi un danno? Su questo meccanismo mentale si sono saldate teorie complottiste, spesso anche influenze politiche importanti. Se a tutto ciò uniamo il panico della pandemia, si possono generare comportamenti pericolosi. Ricordiamo i centri vaccinali vandalizzati e danneggiati… Tutto questo è stato frutto di una dimensione storica alterata, in cui le libertà individuali sono state fortemente coartate. In un’analisi retrospettiva bisognerebbe riflettere su cosa realmente ha funzionato e cosa no». Quali sono le sue opinioni?
«Qualunque Paese abbia avuto a che fare con la pandemia ha adottato le nostre stesse misure. Abbiamo avuto la sfortuna di essere il primo Paese occidentale a essere coinvolto. Sicuramente una cosa su cui bisognerà in futuro prestare molta attenzione è l’uso di tutte le risorse del sistema per curare le persone ammalate di Covid. Gli ospedali sono diventati quasi tutti ospedali Covid. Ma il Covid non cancella le altre malattie, non fa sparire infarti e tumori. Aver lavorato per due anni a ranghi ridotti per tutto ciò che Covid non era, ha avuto delle conseguenze. La soluzione ci sarebbe, anche se nessuno pare capirla. Il sistema sanitario, che ha tenuto in piedi il Paese in quel momento, veniva da anni di sotto-finanziamento. Una volta finito il Covid, quando avremmo dovuto capire che un sistema sanitario sotto finanziato potrebbe non reggere ancora a un urto del genere, anziché andare verso un rinforzo del sistema, si è proseguito nella stessa strada di una riduzione dei finanziamenti». Recentemente ha affermato che il momento più difficile della sua carriera è stata l’epidemia di Chikungunya a Castiglione di Cervia. Perché?
«Credo fosse l’11 di agosto del 2007. Un’infermiera entra in ufficio e mi dice che a Castiglione hanno chiamato per dirci che si stanno ammalando tutti, che c’è in giro una malattia strana. Dopo accertamenti, è venuto fuori che nell’ospedale di Ravenna c’erano 4 persone ricoverate in reparti diversi, tutte di Castiglione. Abbiamo capito che c’era qualcosa di strano. Iniziati i controlli si è scoperto che c’erano già decine di persone ammalate di questa stranissima patologia. Eravamo sotto Ferragosto: molti erano in ferie, anche all’Istituto Superiore di Sanità; e poco lontano da lì, a Cervia, c’era un potenziale bacino di centinaia di migliaia di persone provenienti da tutta Europa. Perciò dico che è stata la sfida più difficile per me. Non ho dormito per settimane, ed è cambiato il mio modo di pensare». Cosa intende?
«Mi ero sempre vista come una semplice professionista di un territorio di provincia, che aveva il compito di attuare al meglio le direttive imposte dai piani alti. Lì ho capito che ognuno di noi deve metterci del suo, perché non tutti i problemi sono chiari fin dall’inizio. Avevamo addosso l’attenzione dei media nazionali. Gli inviati dell’Oms e dell’Ecdc di Stoccolma erano convinti che la malattia si sarebbe diffusa in tutta Europa rapidamente, che non saremmo riusciti a fermarla in quell’ambito ristretto e con le risorse a disposizione. Ma ci siamo riusciti. Anche perché, e questo va detto, il nostro territorio è diverso dagli altri. Qui il senso delle istituzioni è ancora molto forte. Pur essendo allora un giovane medico igienista, i sindaci e le persone con una qualche responsabilità, hanno tutti collaborato con me. Nessuno che abbia detto: “Stiamo zitti perché roviniamo la stagione turistica”. Se si fosse tenuta nascosta, sarebbe stato un disastro: solo facendo venire alla luce i nuovi casi potevamo bonificare il territorio e contenere la malattia. Abbiamo estinto il focolaio: siamo stati il primo posto al mondo in cui si è riusciti a fermare un’epidemia di Chikungunya. Ma sia chiaro che il Covid è stato molto peggio della Chikungunya. La differenza è che col Covid il mondo intero ci dava indicazioni su cosa fare». Cambiamenti climatici e nuove epidemie. Ci dobbiamo aspettare una maggiore frequenza di epidemie nel prossimo futuro?
«Il cambiamento climatico è il problema dei problemi. Dentro ci sta tutto: disastri ambientali, emigrazioni e naturalmente anche i problemi sanitari. Unito alla globalizzazione, rende la possibilità di future epidemie un fatto assolutamente probabile. Ad esempio attraverso l’insediamento di specie tropicali. È già avvenuto negli anni Novanta con la zanzara tigre, che può trasmettere la dengue». Il nostro territorio è più fragile dal punto di vista epidemiologico?
«È fragile quanto ogni altro territorio d’Italia. A volte i dati che vengono dall’Emilia-Romagna sembrano preoccupanti perché sono tanti e più alti delle altre regioni; ma questo dipende unicamente dal fatto che abbiamo dei sistemi di sorveglianza che funzionano. Come le dicevo prima: nascondere un problema infettivo è il modo migliore per renderlo ingestibile. Se l’Emilia-Romagna sembra essere affetta da tanti casi infettivi, è solo perché li troviamo. Aver realizzato a Bologna, al Sant’Orsola, il Crrem, il Centro di Riferimento Regionale per le Emergenze Microbiologiche, la dice lunga: le andiamo a cercare, le cose». In tutto questo non abbiamo parlato di un particolare: lei è una donna.
«Mi dimentico anche io, qualche volta! (Ride)». Ha mai avuto difficoltà nello svolgimento del suo lavoro per questa ragione?
«Sinceramente no. Non ho avuto facilitazioni, ma neanche grossi problemi. Ho avuto la fortuna di lavorare con maestri di levatura molto alta. Ma il mio è un caso individuale e non vuol dire che il problema non esista: esiste eccome. A volte negli incontri ti rendi conto che hai davanti persone che ti sottovalutano perché sei una donna, ma questo si può usare a proprio vantaggio: essere sottovalutati può aiutare, perché puoi stupire le persone». Ha detto che in pensione avrà finalmente il tempo di leggere. Che libri ci consiglia?
«Gli anni di Annie Ernaux e La ricreazione è finita di Dario Ferrari».
Lo scultore è noto a livello internazionale per la sua ricerca poetica espressa attraverso il medium della terracotta
Il Mic – Museo Internazionale della Ceramica in Faenza è tra 40 i progetti – 7 in Emilia Romagna – selezionati nell’ambito dell’avviso pubblico PAC2024 – Piano per l’Arte Contemporanea, promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura con un investimento complessivo di 3 milioni e mezzo di euro, per l’acquisizione, la produzione e la valorizzazione di opere dell’arte e della creatività contemporanee destinate al patrimonio pubblico italiano.
Il MIC di Faenza si è aggiudicato il finanziamento per l’acquisizione di Il Piede, 1983, di Luigi Mainolfi scultore noto a livello internazionale per la sua ricerca poetica espressa attraverso il medium della terracotta.
Le sue opere indagano, attraverso una meticolosa ma potente gestualità, la memoria culturale, la nostra genesi, l’espressione popolare della terracotta. La terra diviene elemento di riflessione sui suoi luoghi di nascita (la Campania), sulla terra madre di tutte le civiltà e sugli archetipi dell’uomo, in una rilettura contemporanea, poetica ed elegante delle nostre origini e del nostro arcaico.
Il Mic Faenza possiede una collezione internazionale di scultura contemporanea: Mainolfi è uno degli artisti più volte esposti ma di cui non si possedevano opere.
De Il Piede – scrive lo stesso Mainolfi – «a volte mi sfuggono le parti della terra durante il volo, i particolari si sfumano, mi avvicino e distinguo le foreste, le acque, il ruggire di un vulcano che sputa vita nella storia, l’arte delle terre. Percepisco il respiro delle montagne dove l’uomo ha trovato sempre, nella sua pelle, una caverna in cui pensare e sognare e mi avvolgo nella scultura dell’aria, nel fuoco dell’arte».
La band ravennate presenta l’ultimo album, Season of Miranda
Il circolo Endas “IX Febbraio” di Gambellara, in collaborazione con l’Osteria del Pancotto, presenta mercoledì 14 agosto The Manifesto in concerto, cui seguirà un dj set per festeggiare il Ferragosto nella brezza della campagna ravennate.
L’apertura del cortile è per le 18.30 con il baretto sui campi, cucina con piatti d’asporto da consumare nel giardino, accompagnati dalle selezioni musicali a cura di Stefano Toma e Lospado e dal live della band ravennate. E per concludere la focaccia di mezzanotte, preparata dallo chef dell’osteria.
The Manifesto sono un trio di Ravenna nato nel 2018 per opera di Massimiliano Gardini (ex Yesterday Will Be Great e Kisses From Mars) alla chitarra e voce, Michele Morandi (ex Brazil) al basso e voce, e Igor Orizzonte alla batteria. Nel 2019 pubblicano l’album d’esordio Maximilien per Blooms Recordings. Il loro nuovo album Season of Miranda (autoproduzione) è uscito nell’autunno 2023.
La notte di San Lorenzo a Lido di Classe, tra sabato e domenica, si è conclusa con una rissa tra ragazzini che ha lasciato sul campo due feriti, di cui uno, un diciottenne, colpito all’addome con un oggetto tagliente ancora da identificare ma non in pericolo di vita. È quanto riportano i due quotidiani cittadini, Carlino e Corriere, in edicola oggi, lunedì 12 agosto.
L’episodio è avvenuto tra le 3 e le 4 sul lungomare, tra i bagni Mattley e Torakiki. Sul posto sono intervenuti i carabinieri della Compagnia di Cervia – Milano Marittima (oltre al personale del 118), che stanno ora indagando sulla dinamica dell’accaduto e soprattutto sull’autore del ferimento. Sicuramente la testimonianza del ragazzo ferito, portato all’ospedale di Ravenna, potrà fornire molti elementi utili, così come le immagini delle telecamere di sicurezza presenti negli stabilimenti balneari della zona. Molto probabilmente la rissa è scattata a seguito di una lite.
Le ravennati inserite nel girone C. Ecco il calendario
Tutto pronto in casa Olimpia Teodora per la prossima stagione sportiva, nel campionato di B1. Pur in un clima ancora decisamente estivo, con la pubblicazione dei calendari del volley per la stagione 2024/2025 si comincia a respirare aria di competizione.
Il campionato di Serie B1 è stato ristrutturato con la riduzione del numero dei gironi da 5 a 4, composti da 14 squadre (non più 13 come in passato). La compagine giallorossa è stata inserita nel girone C che comprende le squadre venete e la fascia est dell’Emilia-Romagna (Bologna compresa) fino a scendere nelle Marche e in Abruzzo. Ci saranno i derby con Bologna, Cesena, Forlì e Riccione e tante sfide interessanti con un livello che si prevede elevato.
Il campionato prenderà il via sabato 12 ottobre e vedrà le leonesse in trasferta contro l’ambiziosa Pieralisi Jesi. La “prima” al Pala Costa è in programma il sabato successivo (19 ottobre) nel match con Cortina Express Imoco San Donà, squadra juniores di Conegliano, da due anni Campione d’Italia di categoria.
Olimpia ancora tra le mura amiche nella terza giornata, sabato 26, contro Futura Volley Teramo.
La rinnovata Olimpia Teodora inizierà la preparazione lunedì 26 agosto con un paio di settimane di intenso lavoro fisico guidato da Daniele Ercolessi, alternata ai primi lavori con la palla in spiaggia al bagno Marinamore di Marina di Ravenna condotti dai coach Federico Rizzi e Fabio Falco. Seguirà un periodo di lavoro in palestra con anche qualche amichevole già programmata con Bologna, Forlì e Cesena, per affinare i meccanismi di gioco.
C’è grande entusiasmo attorno a questo gruppo di lavoro e l’head coach giallorosso non si nasconde: «Sono molto entusiasta e non vedo l’ora di cominciare questa nuova avventura. A mio avviso abbiamo allestito un’ottima squadra con grande identità ravennate (ben 9 giocatrici sulle 14 del roster sono di casa, ndr), con il giusto mix di esperienza e gioventù. Il nostro obiettivo è quello di crescere, migliorare, valorizzare le nostre giovani promettenti e soprattutto riaccendere la passione per il volley femminile a Ravenna. Vogliamo riempire il palazzetto ed entusiasmare il pubblico ben sapendo che questo passerà anche dal nostro gioco. Le basi ci sono, la struttura societaria è solida, motivata e composta da persone che lavorano con passione e competenza. Abbiamo tutto per regalare e regalarci belle soddisfazioni».
Il presidente della provincia risponde al blogger cervese sul paragone tra le coste cervesi e quelle ravennati: «Così danneggiate tutta la riviera, la competizione non si fa a 10 km di distanza»
L’estate avanza e la mucillagine continua a far parlare di sè: sui social spopolano le foto (tra immagini reali e fake) delle microalghe che invadono a banchi la costa ravennate. Un post in particolare però, pubblicato dalla pagina “Cervia e Milano Marittima” ha richiamato l’attenzione del presidente della provincia Michele de Pascale.
Il post mette a confronto un’immagine della costa cervese, con un mare piuttosto limpido e cristallino in primo piano, e la foto di un bambino immerso fino alla vita in un banco di mucillagine, scattata a Punta Marina e diffusa originariamente dalla pagina Meteo-PedemontanaForlivese. Nella descrizione il blogger cervese chiede ai propri follower: «Avete ancora dubbi su dove andare?».
Alla provocazione risponde il sindaco di Ravenna Michele de Pascale, d’origine Cervese, intervenendo come presidente della provincia e candidato alle prossime elezioni regionali. In un commento al post, De Pascale redarguisce l’autore cercando una mediazione tra le due vicine località: «Guardate che facendo così danneggiate tutta la riviera romagnola, la competizione non si fa a 10 km di distanza ma con altre destinazioni e comunque non si fa dileggiando gli altri ma promuovendo se stessi. Chi vi scrive ama tanto le spiagge cervesi quanto quelle ravennati, vi prego di cancellare questo post che contribuisce solo a animare uno scontro fra località sorelle».
Interviene sui social anche Maurizio Rustignoli, presidente della cooperativa bagnini di Ravenna, pubblicando sul suo profilo Facebook il breve video di una passeggiata sulla riva di Marina di Ravenna girato oggi, domenica 11 agosto, evidenziando la trasparenza dell’acqua nei pressi del litorale.
Fino al 18 agosto ai Magazzini del Sale di Cervia un viaggio nella rappresentazione di se stessi curato da Claudio Spadoni
Mattia Moreni, La bella Asburgo. Autoritratto n. 157, 1992, collezione privata
La frase della regina cattiva – Specchio, specchio delle mie brame – si blocca e tiene in sospeso la spinta narcisista che conduce alla domanda seguente. Si chiederà a chi appartenga la bellezza perfetta, senza poter nascondere nella domanda quanto feroce sia l’amore di sé. Apparentemente la pratica dell’autoritratto artistico potrebbe essere considerata una traiettoria della tendenza narcisistica che ci si aspetta possieda ogni artista che ha calpestato terra, ma in realtà questo amore di sé è invece un’antica proiezione culturale sulla casta dell’arte.
Ci sono esempi di autoritratti che non spiegano alcun amore di sé, anzi sono più vicini a manifestare un desiderio di sconfitta della caducità che un mettere alla prova la tolleranza degli altri. Il genere non è sempre esistito nelle varie civiltà del mondo occidentale e non è chiaro l’esatto atto di nascita in Europa. Sicuramente era necessaria una cultura che mettesse al centro l’essere umano e le sue azioni e attività, come accade in zone dell’Europa nel Basso Medioevo, quando grazie alla spinta della borghesia – nuova classe sociale in ascesa – l’essere umano comincia a essere la misura di tutto. Da questo momento l’arte lascia le prime tracce di ritratti di uomini e donne, un genere che precede temporalmente quello dell’autoritratto. In seguito, fissare la propria e l’altrui immagine è cosa fatta attraverso i secoli, come lo è oggi. La bella mostra promossa da Cna a Cervia e curata da Claudio Spadoni, Specchio delle mie brame. La seduzione dell’autoritratto, raccoglie una serie di autoritratti di artisti allo scopo di analizzare la complessità dei motivi che possono spingere alla realizzazione di questo genere: si parte dagli inizi del secolo breve attraverso quattro sezioni che articolano stili o spinte interiori, pulsioni e strumenti linguistici. Realismi e premonizioni costituisce l’introduzione al tema che si apre con un autoritratto di Antonio Mancini, un pittore romano devoto al linguaggio naturalista appreso sull’ultimo scorcio dell’Ottocento. Il verismo della sua pennellata, che sfuma quasi ossequiosa nel tentativo di imitare la verve leggera di Boldini, fa entrare nettamente nello spirito della Belle Époque. E in effetti che sia paesaggio, autoritratto o natura morta, risulta difficile nascondere le tracce dello spirito di un’epoca. Solo De Chirico riesce a rompere l’assioma: lui non dipinge se stesso gettando lumi su un’epoca ma si dipinge in un tempo fuori dal tempo, le cui dimensioni sono conosciute solo dal pittore, mentre al pubblico non resta che rendere omaggio all’unico interprete in scena. Decisa risulta anche la pennellata del grande Mario Sironi, che, abbandonando le usuali vedute urbane che raccontano una storia periferica e minore in netta opposizione ai clamori del fascismo, qui si misura con la figura umana. Scegliendo se stesso, Sironi appare sicuro nella versione meno cupa di un sorriso smagliante, definito attraverso un linguaggio pittorico talmente contemporaneo da lasciare ammirati. C’è anche chi rende molto vaghi i propri tratti fisionomici, come se il tentativo di fissare lo sguardo dovesse costantemente deragliare su altri dettagli dirottando l’attenzione da sé: Francesco Menzio – artista sardo trasferito a Torino nel 1912 – ritrae se stesso mentre si guarda allo specchio ma è soprattutto un mazzo di fiori sulla mensola ad attirare lo sguardo. La stessa versione malinconica di un io che preferisce l’ombra è scelta dalla pittrice bolognese Norma Mascellani, che a metà degli anni ‘30 lascia un proprio autoritratto a pastello, così evanescente da apparire come un prezioso disegno rinascimentale.
Debora Hirsch, senza titolo, 1998, collezione privata
Rosetta Berardi, Attraverso l’opera (autoscatto), 2014, collezione privata
Mario Sironi, autoritratto in divisa militare, 1915-18, Galleria Cinquantasei – Bologna
Giosetta Fioroni, Teatri per la memoria, 2001, collezione privata
Luigi Ontani, Angelo Ri Velato, 1975, collezione privata
La sezione seguente – Il mito personale – raccoglie personalità che corrispondono più al profilo di Narciso catturato dal proprio riflesso, trasformato nel quaderno su cui disegnare l’architettura del proprio sé. Qui sono esposti alcuni crudi autoritratti di Mattia Moreni, eseguiti in quella pittura diretta, scattante, autoreferenziale che gli era propria. Oltre ai dipinti, di lui è anche una scultura polimaterica che spiega senza possibilità di errore come l’ossessione che incatena lo sguardo al proprio io non sia assoggettata per forza alla bellezza, all’amore di sè. L’ossessione in questo caso appare più il vincolo di una battaglia fra sé e sé, un campo su cui si esce solo vivi o morti. Anche gli autoritratti di Beuys sono appunti di un diario personale che accompagna azioni e riflessioni dell’artista: il corpo autoritratto è performativo e fa parte dell’azione e della riflessione estetica dell’artista. Come lui, Marina Abramovic e Ulay vengono immortalati in alcune delle azioni che li hanno resi celebri nel corso degli anni ‘70, ma i loro corpi registrati sono gli strumenti necessari alle performance, i mezzi necessari all’azione estetica e non il loro scopo. Le ultime due sezioni della mostra – Lo specchio e la scena conclusa poi da Narciso, oltre lo specchio metafore e metonimie – introducono altri sguardi sul genere dell’autoritratto: gli Specchi e i Teatrini di Giosetta Fioroni rimandano a una messa in scena dell’interiorità senza la presenza del pubblico, come se l’autoritratto fosse teatro di un dialogo sommesso fra sè e i propri ricordi, un evento che costruisce la catena e il senso del passato.
Chiude l’ultima sezione una serie di opere che indugiano sul riflesso di sé: per Ontani il proprio corpo è l’oggetto di un grande affetto e ammirazione ma è anche il lo con cui tessere un articolato discorso narrativo. Per Marco Neri o Nicola Samorì, al contrario, diventa un ostacolo, un omissis da mantenere ossessivamente come prova della propria esistenza.
“Specchio delle mie brame. La seduzione dell’autoritratto”; Cervia, Magazzino del sale; fino al 18 agosto; tutti i giorni 20-24.
Sei giorni di concerti, dj set e performance sulla spiaggia di Marina di Ravenna
Da Appino ai New Candies, tornano sulle spiagge de Finisterre beach di Marina di Ravenna i grandi nomi dell’alternative rock italiano, in occasione della nuova edizione del Woodstock Beach Festival. L’iniziativa, nata nel 2019 in occasione del 50esimo anniversario dal celebre festival di Bethel nel 1969, vuole raccogliere un testimone, presentando band nazionali ed emergenti tra le vele del Finisterre, dal 13 al 8 agosto. Oltre alla musica live ci sarà spazio per dj set, esposizioni d’arte e artigianato e performance.
Si parte con la “preview” del festival il 13 agosto, alle 21.3o con il live dei New Candys e Teaser, mentre il 14 si inizierà già dal primo pomeriggio, con l’evento “Punkz on the beach” (ore 14) con il dj set si Buddy Gavetta, il live dei Sunset Radio e Cara Calma alle 22 e il party “Emo milano night” fino alle 3.
Giovedì 15 agosto si entra nel vivo del festival con il concerto all’alba di Incubo (ore 6) e i live dei Lovesick Duo alle 22. Il 16 agosto il frontman degli Zen Circus Appino porterà sul palco del Finisterre il suo ultimo album da solista. Si prosegue sabato 17 con il live di Postino e I segreti (ore 21) e il dj set Indie Power fino all’1.
La chiusura del 18 agosto sarà invece affidata ai Bull Brigate, in concerto alle 22.
Il servizio gratuito lanciato dalla coop Villaggio Globale per ridurre gli sprechi degli oggetti di uso occasionale. Anche laboratori per imparare ad aggiustare i guasti
Vanghe e rastrelli, valigie, pennelli da imbianchino, robot tosaerba e tende da campeggio. Questi oggetti hanno poco in comune, se non l’utilizzo saltuario (a volte addirittura singolo) a cui sono solitamente destinati. Dopo l’acquisto, avvenuto in un momento di necessità, questi prodotti finiscono spesso con l’affollare cantine e garage, arrivando anche a danneggiarsi per l’incuria. Proprio per rispondere a queste necessità, tanto comuni quanto sporadiche, nel 2020 a Ravenna nasce la Tool Library, una sorta di biblioteca destinata al prestito di oggetti in un’ottica di sostenibilità, risparmio e lotta allo spreco. «Comprare tutto ciò di cui abbiamo bisogno è difficile e spesso anche inutile – commenta Roberta Vitali, socia della cooperativa Villaggio Globale che gestisce la Tool Library –. Crediamo che un servizio di condivisione dedicato alla comunità sia necessario per ridurre gli sprechi e l’impatto ambientale del singolo cittadino». Superate le difficoltà iniziali legate alla pandemia, nel 2023 il progetto si amplia, grazie alla collaborazione con Ceas Ravenna (Centro Educazione alla Sostenibilità) e al supporto del Comune e della Regione. Il nome viene cambiato in Oggettoteca, di più facile diffusione, e lo scorso maggio viene lanciato un sondaggio alla cittadinanza per raccogliere le preferenze sulla tipologia di oggetti da mettere a prestito. Dei 170 ravennati che hanno partecipato all’indagine, la maggioranza ha mostrato interesse per attrezzi come l’idropulitrice o il trapano e, più in generale, per gli strumenti dedicati a fai-da-te e giardinaggio, materiale da campeggio e da viaggio. Tra le scelte più popolari, anche tavoli e sedie per le feste, macchine da cucire, culle, passeggini e materiale per l’infanzia. Gli oggetti destinati al prestito vengono comprati direttamente dall’associazione o chiesti in condivisione o donazione attraverso delle call pubbliche. Con l’ampliarsi del progetto è stato istituito un percorso partecipativo per stabilire un regolamento d’uso del servizio, che oggi prevede un tesseramento gratuito per accedere al registro prestiti e il deposito di una caparra a garanzia in base al valore dell’oggetto. Nel caso di danni accidentali ai materiali, il tesserato si impegna a risarcire il costo di sostituzione o riparazione dell’oggetto, o a sostituirlo con uno della medesima funzione (a prescindere dalla differenza di marchio e valore economico). «Siamo ancora in una fase iniziale del progetto – continua Vitali –. Pensando al futuro vorremmo mettere al centro dell’iniziativa lo spirito di partecipazione: per tesserarsi infatti, sarà richiesto un oggetto da mettere in condivisione, in modo da continuare ad ampliare il catalogo in modo organico. Alcune realtà analoghe, come Leila a Bologna, lavorano già in questo modo e crediamo sia la direttiva giusta da seguire». Tra i progetti futuri, anche la realizzazione di un sito web dedicato, dove sarà possibile consultare il catalogo degli oggetti a disposizione e i relativi periodi di disponibilità. Attualmente l’Oggettoteca è in via Carducci 16, negli spazi della sede di Cittattiva (il centro di partecipazione civica, mediazione sociale e cittadinanza attiva del Comune di Ravenna) Oltre al servizio di prestito, nelle ultime settimane hanno preso il via alcune iniziative gratuite, come workshop e laboratori, che insegnano come utilizzare al meglio alcune delle risorse disponibili in Oggettoteca: si va dai laboratori creativi di outdoor, dove vengono insegnati i trucchi del vero campeggiatore, al corso di cucito e uncinetto (in programma lunedì 26 agosto), passando anche per corsi dedicati alla sostenibilità, come il laboratorio di cosmesi senza plastica che ha aperto il ciclo di incontri in luglio, con una lezione dedicata all’autoproduzione di deodorante. «Contiamo un’adesione sempre maggiore a questo tipo di iniziative, e abbiamo intenzione di arricchire ulteriormente il programma. Sogniamo una comunità che “impara facendo”, dedicata al riparo e al riuso, e crediamo che avere un know-how di base sia necessario per sfruttare al meglio i servizi dell’Oggettoteca. Abbiamo notato che la partecipazione è maggiormente femminile: si parte dalla fascia universitaria fino alle over 50 e 60. Dei 15 cittadini che hanno aderito al percorso partecipativo, 14 erano donne. Non so se questo sia dovuto a una maggiore inclinazione delle donne alla condivisione o alla mancanza di un proprio “garage degli attrezzi” più diffuso tra gli uomini, ma siamo felici di mettere a disposizione un servizio tanto apprezzato dalla popolazione femminile. Sembra di vivere un ritorno alle origini. Per i nostri genitori e nonni risparmiare e conservare era la prassi, la generazione che oggi ha 50/60 anni deve in qualche modo ri-impararlo, i più giovani invece sembrano avere un’attenzione comune sempre crescente».
Qualche anno prima dell’invenzione della Tool Library, nasceva a Ravenna la Stoviglioteca, un servizio di condivisione di piatti, posate e bicchieri per combattere l’utilizzo di stoviglie monouso in plastica. Nei primi periodi di attività, il servizio offriva in prestito due kit da 30 coperti in polipropilene, mentre oggi conta 150 coperti in polipropilene e 120 in ceramica, coprendo anche i bisogni di Cre estivi, come nel caso del punto di ristoro di Parco Teodorico. Da aprile a dicembre 2023, sono state seimila le persone che hanno usufruito dei coperti e i dati del 2024 dimostrano un notevole incremento: i dati aggiornati a giugno registrano già cinquemila prestiti. Tra le altre iniziative dedicate al riciclo e al riuso organizzate da Villaggio Globale e Cittattiva c’è anche la raccolta di grembiuli, fiocchi e zaini di seconda mano da destinare alle famiglie più fragili, in supporto all’iniziativa comunale che garantisce la distribuzione di materiali scolastici e cancelleria e gli “swap party”, giornate dedicate al baratto molto diffuse tra gli studenti dell’università. Ogni appuntamento ha un tema (costumi di carnevale, vestiti estivi o abiti e accessori invernali, per citarne qualcuno) e per ogni capo portato viene restituito un gettone, che si può utilizzare per “acquistare” un altro capo a propria scelta. La regola degli swap party è che 1 vale 1. Non importa il valore originario dell’oggetto, per ogni cosa ceduta se ne può avere indietro un’altra. Questa dinamica risulta estremamente popolare nella fascia universitaria.
Karch Kiraly, che ha vinto tutto con il Messaggero, è l’allenatore della nazionale femminile degli Stati Uniti
Kiraly ai tempi del Messaggero Ravenna
L’ultimo ostacolo tra la medaglia d’oro e la nazionale italiana di volley, arrivata per la prima volta a una finale olimpica, ha il volto di una leggenda dello sport ravennate. Si chiama Karch Kiraly e per un certo periodo – come lo ricorda la Gazzetta dello Sport – è stato il “Maradona della pallavolo”. Che i ravennati hanno avuto la fortuna di ammirare per due stagioni al Pala De André, insieme al connazionale Steve Timmons, nel Messaggero di Raul Gardini, con cui vinse nell’arco di appena due stagioni (tra il 1990 e il 1992) uno Scudetto, una Coppa Italia, il Campionato mondiale per club, la Coppa dei Campioni e la Supercoppa europea. Un periodo davvero d’oro, con un sestetto che in quegli anni poteva contare anche su Andrea Gardini, Roberto Masciarelli e Fabio Vullo, oltre al faentino Stefano Margutti.
Kiraly alle Olimpiadi di Parigi da allenatore degli Usa
Kiraly ora allena la nazionale femminile del suo paese, gli Stati Uniti, che domenica 11 agosto (dalle 13) contenderà l’oro olimpico all’Italia di Julio Velasco. A 64 anni è già riuscito in una sorta di “slam” incredibile del volley: due Olimpiadi da giocatore, una nel beach e l’ultima a Tokyo sempre da allenatore della femminile. La speranza degli italiani – e dei suoi ex tifosi ravennati – è che abbia già la pancia piena…
Il titolare ha aperto l’attività nel 1989: «Oggi per portare avanti questo lavoro ci vuole passione. Jetski e runabout runabout si portano dietro la nomea di mezzi pericolsi, ma non è così»
La comparsa delle prime moto d’acqua sui lidi ravennati si annota intorno alla metà degli anni ’80 quando, dopo qualche decennio dalla diffusione in Europa, il nuovo mezzo diventò una vera e propria moda anche sulle coste italiane. Seppur si trattasse di un divertimento apprezzato da turisti e giovani avventurosi, l’uso spesso sconsiderato delle moto ha portato all’abrogazione di una legge, nel 2005, che obbliga i conducenti a detenere la patente nautica di tipologia A per la navigazione in mare aperto, dando un taglio improvviso al mercato.
Senza patente è consentita la navigazione all’interno di apposite aree circoscritte, come laghi artificiali. Ad oggi però, su territorio nazionale, sono solo due i noleggi di moto d’acqua rimasti attivi, uno dei quali proprio a Ravenna, in via della Sacca 3 (lungo la statale Adriatica). «Prima del 2005 questo tipo di attività dava lavoro a oltre 300 famiglie su tutta la costa italiana. Oggi, per mandare avanti un’attività di questo tipo serve tanta passione. Oltre al nostro noleggio se ne conta solo un altro nel Paese, a Signa, in Toscana» racconta Emiliano Pieri, che gestisce il noleggio ravennate di jetski “Lago Pineta” dal 1989, insieme alla sua famiglia. «In Italia, questo tipo di attività si porta dietro da sempre un’ombra di paura e diffidenza. Si parlava di “moto assassine” o di sport estremo, ma la verità è che nei primi anni di diffusione è mancata la corretta regolamentazione: le moto giravano in mezzo ai natanti, mancavano direttive definite e un po’ di buonsenso da parte dei fruitori. Le moto in sé però sono tutt’altro che pericolose. Sta al conducente ricordarsi sempre che si tratta di un mezzo di trasporto, e non di un giocattolo». Dopo il primo anno di attività sulla costa di Lido di Savio, Pieri acquista il lago artificiale di via della Sacca, al tempo adibito come zona di pesca sportiva, per creare una struttura dedicata: «L’idea del noleggio nasce dal sogno di mio fratello. Era importante per lui, e lo è diventato ancor di più per me dopo la sua prematura scomparsa. Il nostro primo anno di attività fu un buco nell’acqua – spiega il titolare – fu il primo anno della mucillagine e gli affari non decollarono. Ma non ci siamo arresi, abbiamo capito il potenziale di quello che stavamo facendo e abbiamo costruito questa attività passo dopo passo».
Oggi il Lago Pineta dispone di due aree di circolazione, una dedicata al noleggio di jetski (una piccola moto d’acqua che si utilizza in piedi) prevalentemente da parte di neofiti, e una ad uso esclusivo dei navigatori più esperti, che possono far girare all’intero del lago i propri mezzi privati, jetski o moto d’acqua con seduta (runabout). «Il nostro noleggio dispone di jetski “stand-up”, modello di dimensioni ridotte (rispetto a quelle con la sella) ma facile da utilizzare per un primo approccio. Arrivano a una velocità massima di 50/60 chilometri orari, mentre per i mezzi più grandi con seduta si superano facilmente i 100 – spiega il ventunenne Davide Pieri, figlio di Emiliano, cresciuto in mezzo alle moto d’acqua ed entusiasta di portare avanti l’attività di famiglia. Il noleggio è aperto a tutti e ai neofiti viene impartita una lezione introduttiva prima del noleggio. Gli unici limiti riguardano l’età e un minimo di prestanza fisica: «Il jetski richiede più impegno rispetto alla tradizionale moto con seduta, bisogna trovare il giusto equilibrio. È uno sport completo, adatto praticamente a tutti. Solitamente si inizia con giri brevi, di 15 minuti, per prendere confidenza con il mezzo e testare la propria forza – continua Davide – il divertimento però, non è paragonabile: se la moto d’acqua dopo le prime corse rischia di diventare ripetitiva, con il jetski non si finisce mai di imparare, e ogni uscita è più divertente della precedente». Vista la rarità di spazi autorizzati e sicuri per la navigazione con questo tipo di mezzi, il lago ravennate attira turisti da diverse parti d’Europa e del mondo, ma anche ravennati curiosi: «Purtroppo crediamo che questo tipo di sport non avrà mai il suo giusto riscatto in Italia, però sopravvive, grazie alla passione di chi lo pratica. Molti piloti di livello mondiale vengono qui per sfruttare le caratteristiche particolari del lago, che permettono un allenamento paragonabile alla sessione in gara, per non parlare poi dei raduni che si creano a bordo lago, che fortificano ancor di più il rapporto tra professionisti e neofiti. È come sperimentare tutta la libertà del motocross con la sicurezza di una caduta in acqua» conclude il titolare. Ma abbandonati i preconcetti, l’esperienza è assolutamente consigliata anche a livello amatoriale: la sensazione è impagabile, sembra di volare!