Il ravennate Alberto Marchesani ha concluso la gara estrema in Oman, dopo sei giorni di autonomia alimentare. Il suo racconto
«A parte una ventina di vesciche e due unghie cadute, fisicamente sto abbastanza bene. A pesare di più è stata la fatica mentale». Lo contattiamo poco dopo essere arrivato in fondo all’ultramaratona nel deserto dell’Oman. Alberto Marchesani, 40 anni tra pochi giorni (il compleanno è stato la molla che l’ha spinto a iscriversi), è l’unico ravennate ad aver partecipato e concluso questa mattina (giovedì 23 novembre) la gara estrema, tra i circa cento partecipanti provenienti un po’ da tutto il mondo.
Sei tappe in sei giorni per complessivi 165 chilometri corsi (o in alcuni casi anche camminati) in una trentina d’ore complessive di “gara”, anche se in una manifestazione come questa l’aspetto sportivo, fatta eccezione per alcuni top-runner, passa decisamente in secondo piano.
«L’altro grosso problema è stato quando una folata di vento ha portato via la nostra tenda e abbiamo dormito di notte con 4 gradi (l’organizzazione ne aveva previsti circa 15, ndr). Mi sono messo tutti i vestiti che avevo, una tuta di carta da imbianchino e poi ho utilizzato anche un sacco della spazzatura con alcuni buchi per occhi e bocca (nell’incidente si è anche danneggiato il materassino di Marchesani che poi ha quindi dormito per terra, ndr). Avrei voluto scavare una buca per cercare il caldo. Una nostra compagna di tenda si è anche ferita a una caviglia, quella notte».
L’ultramaratona non era partita sotto i migliori auspici. «Al secondo chilometro della prima tappa ho vomitato, forse avevo bevuto troppa acqua, forse ero troppo nervoso…». Nervosismo che poi forse passa grazie anche ai compagni di avventura. «In tenda ci si incitava, si cercava di darci coraggio l’un l’altro, ci si scambiava cibo e consigli». Fino al grande respiro di sollievo collettivo, una volta arrivati alla fine della sesta tappa, direttamente sul mare, quasi come un miraggio. «Ora pagherei mille euro per avere una birra», ci scrive Marchesani che per la prima volta torna in contatto con il mondo (riuscendo così a rassicurare e salutare anche moglie e figlia, di 3 anni), dopo sei giorni di totale isolamento. Poi la comunicazione sui social si interrompe, ma solo perché l’autonomia alimentare è finita e alle tende del campo allestito all’arrivo è arrivato finalmente il cibo…