L’alpinista Hervé Barmasse ha esplorato diverse zone dove nessun altro aveva mai messo piede. Ne parlerà a Faenza il 7 novembre
«La montagna mi trasmette pace e serenità. Quando sono sulle terre alte sto bene, non ho mai trovato un altro luogo in grado di darmi le stesse emozioni». Hervé Barmasse nasce ad Aosta nel 1977 ed è la quarta generazione di guide alpine della famiglia. Nella sua carriera ha scalato le alture del Pakistan e della Patagonia, passando per Cina, Nepal e Tibet, ma restando sempre profondamente legato al “suo” Cervino. Ha affrontato diverse salite in solitaria e aperto vie sulle vette d’Italia e del mondo, esplorando zone della montagna dove nessun altro uomo aveva mai messo piede, sempre in stile alpino (senza l’uso di portatori d’alta quota, bombole d’ossigeno o corde fisse). Alcune delle sue imprese sono documentate nei suoi film e libri: «Ma non chiamatemi regista, e nemmeno scrittore. Bisogna seguire altri percorsi per appropriarsi di quei titoli. Io cerco solo un modo per divulgare le mie esperienze e raccontare la montagna». Nel 2017 infatti Barmasse è stato ospite fisso della trasmissione di Rai3 “Alle falde del Kilimangiaro” e dal 2024 parla di montagna e scalate con un appuntamento fisso su Radio Deejay. Il suo progetto divulgativo attraversa l’Italia con una serie di incontri dal vivo: giovedì 7 novembre sarà al teatro di Faenza, in occasione della Festa della Montagna, dove porterà la conferenza ”Oltre l’orizzonte”. «Un racconto della mia vita e delle mie esperienze, ma anche una riflessione sull’alpinista in quanto uomo e il suo rapporto con la società».
Cosa significa essere alla quarta generazione di guide alpine, cosa le hanno trasmesso i suoi famigliari?
«Sono fortunato a portare sulle spalle una tradizione tanto importante. Fin dall’infanzia la mia famiglia mi ha trasmesso l’amore e il rispetto per le terre alte. Quando ho scelto di iniziare a scalare, avere una storia dietro di me è stato importante, anche se le uscite insieme a mio padre si contano sulla punta delle dita. Ora ha 75 anni e cerco di spronarlo a fare almeno un’altra uscita insieme. A suo modo ha sempre cercato di “proteggermi” tenendomi lontano dalla montagna, così come suo padre fece a sua volta con lui. Ora che ho due figlie anche io capisco quanto sia stata coraggiosa come scelta».
Se le sue figlie volessero continuare la tradizione?
«In realtà c’è un’altra tradizione nella mia famiglia, quella di essere insegnanti o professori, interrotta da me. Già alla fine dell’ottocento mio nonno si divideva tra le lezioni nel torinese e le scalate in montagna. Se dovessero scegliere di seguire una tradizione famigliare spererei che fosse quella. Le donne comunque risultano capacissime in montagna, grazie alle ottime doti fisiche. Saranno loro a decidere e io da padre non potrò che supportarle in ogni caso».
Cosa spinge uno scalatore sulla cima, uscita dopo uscita, nonostante la consapevolezza del pericolo?
«È difficile da spiegare. In letteratura è stato descritto come “mal di montagna”, in modo meno poetico veniamo chiamati “conquistatori dell’inutile”. In cima a una montagna non guadagni né denaro né potere, ma se la tua passione è sana e autentica, trovi la felicità. Spesso ci vuole più coraggio a seguire la felicità piuttosto che a rinunciarvi. È il bilanciamento tra quello che la montagna ti regala e quello che potrebbe toglierti: la cronaca riporta i drammi, ma le storie belle e a lieto fine sono molte di più. Tendiamo a vedere solo la tragedia e a dare la colpa a ciò che conosciamo meno ma la “montagna assassina” non esiste, siamo noi a commettere degli errori. In qualche modo ti dà la dimensione dell’uomo su questo pianeta: siamo ospiti ed è lei a decidere se farci passare».
Quando si è avvicinato all’alpinismo?
«I monti mi accompagnano da sempre, a 16 anni ero una promessa dello sci italiano ma un grave incidente mi ha costretto ad abbandonare il mio grande sogno. È stato difficile, soprattutto per l’età in cui mi trovavo. Da adolescenti non si è bravi a riprogrammare e mi sentivo come se la vita mi avesse strappato via il futuro. Per la prima volta mio padre mi portò sul Cervino, non sulle piste ma sui sentieri, e lì ho trovato una nuova montagna».
Ha mai avuto paura?
«Paura sì, panico mai. Ho provato sensazioni di terrore in altri ambiti della mia vita ma mai sulle vette, nemmeno durante le scalate in solitaria. Quando vivi la montagna in modo sereno, la paura è un sano campanello d’allarme che ti permette di fare le scelte giuste».
Qual è stata la scalata che porterà sempre nel cuore?
«Ce ne sono tante, nessuna ti regala le stesse emozioni della precedente. Alcune però sono davvero particolari: ricordo l’ottava salita con mio padre, quando abbiamo aperto insieme una nuova via sul Cervino, la montagna di casa. Un bel traguardo a livello sportivo, visto che non siamo stati i primi a provarci, ma so- prattutto a livello umano».
La cima più alta invece?
«La parete sud dello Shisha Pangma. Oltre 8.000 metri in stile alpino, o come preferisco io, “pulito”. Quando si immagina una scalata importante, come quella dell’Everest ad esempio, si pensa alle lunghe cordate di scalatori con bombole di ossigeno accompagnati dagli sherpa. Questa tecnica di salita, definita himalayana, è molto impattante sulla montagna. Lo stile alpino è più impegnativo a livello fisico e mentale ma preserva l’area naturale. Credo che uno scalatore dovrebbe essere come prima cosa un amante del territorio e che sia meglio lavorare sulle proprie capacità invece che affidarsi alla tecnologia a discapito dell’ambiente».
Parlando di inquinamento e crisi climatica, la montagna sta cambiando?
«Assolutamente sì. Si parla tanto di “salvare la montagna” ma in realtà dobbiamo salvare noi stessi. La montagna si adatta, anche senza neve. È l’uomo che mette a repentaglio la sua vita e l’intera società con la fusione dei ghiacciai, che conservano più del 70 percento delle acque bianche sul pianeta».
Oggi sui social l’outdoor sembra essere una sorta di moda, questo è un bene o no?
«È vero, ma non parlerei solo di moda. Credo che la causa sia anche da ricercarsi negli anni di privazioni del Covid: quando una persona si sente rinchiusa l’istinto è quello di scappare, avvicinandosi magari all’escursionismo. In questo non c’è nulla di male, il problema sta nell’atteggiamento: sui social si tende a mostrare tutto ciò che si fa, rincorrendo lo scatto più bello e mettendo a volte a repentaglio la propria vita senza nemmeno accorgersene. È bello che le persone si avvicinino alla natura, ma bisognerebbe riscoprire anche l’idea di intimità e ricordi personali da condividere con chi davvero ci vuole bene».