Riverso: «Sui problemi del lavoro la politica locale poteva fare di più»

Il giudice ora è alla Cassazione, ospite a un incontro
organizzato da Ravenna in Comune

Protagonista per anni della vita del tribunale di Ravenna come giudice del lavoro, Roberto Riverso, a soli 55 anni è stato chiamato a Roma alla Corte di cassazione, Sezione lavoro. Lo abbiamo incontrato a margine di un incontro su dignità e legalità nel lavoro organizzato da Ravenna in Comune, la lista civica che riunisce le varie anime della sinistra e candida a sindaco Raffaella Sutter, in alternativa al Pd (vedi il resoconto tra i correlati).

Giudice Riverso, innanzitutto, un commento sul suo incarico a Roma?
«Si tratta di un lavoro difficile; però molto gratificante perché la Corte di Cassazione parla a tutta l’Italia, assicura la corretta ed uniforme applicazione della legge e le sue sentenze vanno rispettate da tutto il Paese. Questo implica una grande assunzione di responsabilità perche i giudici della Cassazione per conquistarsi il rispetto devono argomentare le proprie tesi con giustizia, equilibrio, autorevolezza».

Le manca il lavoro che faceva qui?
«Mi manca certamente; anche Ravenna. Ci ho lasciato il cuore in trent’anni di cause di ogni tipo nella nostra provincia».

Come va letta la sua presenza all’iniziativa di una forza politica in campagna elettorale?
«I giudici non vivono sulla luna e, con le loro diverse opzioni culturali e ideologiche, hanno il diritto di intervenire liberamente nel dibattito pubblico su temi eticamente e politicamente sensibili; com’è un confronto sulla legalità del lavoro nella città in cui si vive. Un tema molto trascurato in campagna elettorale e di cui si parla solo in modo distorto, secondo me. C’è soltanto una narrazione di governo e di potere, che riduce le persone a cifre, a numeri; e che, a mio avviso, deforma la realtà».

E quale è la realtà che vede lei?
«È ancora durissima; ed è fatta di milioni di persone che lavorano in nero, con lavoro sottoprotetto e di un’ampia fascia di lavoratori, sia autonomi sia subordinati, che non hanno sostanzialmente diritti, soprattutto nelle piccole imprese. Senza contare le persone che ormai hanno rinunciato a cercare un impiego».

Il suo giudizio sul livello politico nazionale è netto, ma sul piano locale crede che la politica potrebbe fare qualcosa? E c’è qualcosa che non ha fatto negli anni in cui ha lavorato a Ravenna?
«Non mi pare che i problemi del lavoro siano stati al centro dell’agenda politica di chi ha governato Ravenna negli ultimi anni. Non ho notato vicinanza ai problemi del lavoro, della sicurezza, del reddito dignitoso. Diciamo che si poteva fare di più. E ci sono stati silenzi assordanti su fatti di rilievo. Ma questo non deve meravigliare, perché il lavoro ha perso di peso politico in tutto il Paese».

Come se lo spiega?
«Il lavoro non è più un fattore culturalmente e politicamente aggregante: manca un soggetto politico che faccia del lavoro l’elemento propulsivo per un progetto di società più giusta che metta al centro il rispetto delle persone ed il tema del contrasto alle diseguaglianze, che anzi sono sempre più nette grazie a vent’anni di liberismo sfrenato. Anni in cui è prevalsa l’idea che togliere diritti e tutele possa assicurare il progresso sociale e non sia invece la causa stessa della crisi sociale ed economica che a toccato il suo culmine negli ultimi dieci anni. Ma se le forze progressiste non fanno dell’uguaglianza, delle politiche redistributive l’oggetto principale della loro azione, vuol dire che hanno smarrito il loro stesso motivo di esistere; ed è per questo che perdono consensi».

Tentazioni di una carriera politica?
«La politica, la più nobile dell’attività umane, deve essere fatta da chi ha a cuore le sorti degli altri. E per lo stretto tempo necessario. Non è un mestiere da riservare ad ambiziosi in cerca di una carriera».

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