Marco Cavalcoli di Fanny & Alexander: «Noi e pochi altri, gli ultimi dei Mohicani»

Parla l’attore di punta della storica compagnia ravennate che compie 25 anni: «I festival chiudono, le stagioni si assotigliano, le giovani compagnie non possono più permettersi linguaggi troppo radicali»

Funny E Alexander

Marco Cavalcoli

Marco Cavalcoli, classe 1970, è l’attore di punta dei Fanny&Alexan­der, compagnia ravennate che compie i 25 anni di attività. Ab­biamo ripercorso con lui un po’ di storia e parlato del futuro.

Per festeggiare questo anniversario facciamo un po’ di amarcord. Come hai conosciuto Chia­ra Lagani e Luigi De Angelis?
«Chiara e Luigi li ho conosciuti prima della fondazione dei Fanny& Alexan­der, quando ancora frequentavo il Liceo Classico. Poi, dopo la costituzione della compagnia nel ’92, non mancarono occasioni d’incontro fra loro, il gruppo con cui lavoravo allora, la Compagnia del Druido, e altre giovani realtà teatrali del territorio, come il Teatrino Clandestino, i Motus e i Masque.»
A quando risale il tuo ingresso nella compagnia?
«Nell’estate del ’97 partecipai alla Sinfonia majakovskijana prodotta dal Ravenna Festival, che vedeva assieme il Teatrino Clandestino e i Fanny& Alexan­­der. Dopo quell’esperienza, mi chiesero di partecipare al loro spettacolo successivo, La felicità di tutti. Non ci siamo più mollati».
Il tuo racconto dà l’impressione di una giovane scena teatrale in grande fermento.
«Era un momento fertile, stavano nascendo quelli che sarebbero stati conosciuti come i gruppi degli anni ’90. Non solo a Ravenna, ma a Rimini, Forlì, Bologna.»
E oggi?
«I gruppi giovani ci sono. A Ra­venna gli ErosAntEros hanno pochi anni di vita, c’è il Teatro Onnivoro. Alcune cose stanno nascendo. Ma mi sembra che sia cambiata una situazione, il modo in cui il mondo, oggi, può accogliere una giovane compagnia.»
C’è stata una chiusura degli spazi?
«Sì. La chiusura di spazi è oggettiva, sul piano nazionale, ma credo che sia cambiata la prospettiva di chi comincia a fare questo lavoro. Già i gruppi degli anni Duemila, come i Menoventi o i nanou, sono nati con l’idea molto chiara che non ci sarebbe stato un futuro da grandi per loro. Noi forse potevamo ancora illuderci che il nostro percorso potesse essere quello della Valdoca, della Raffaello Sanzio, delle Albe; i più giovani, dopo di noi, hanno capito che quel tipo di carriera non esisteva più. Non c’è più la prospettiva di partire da una piccola compagnia e fondare un centro, un teatro stabile. Gli spazi sono stati più o meno tutti occupati».
Come si supera questa difficoltà, secondo te?
«La confluenza di vari gruppi nella cooperativa e-production, nel 2012, è in fondo il tentativo di rispondere a questa saturazione unendo le forze. C’è ancora molta strada da fare, però c’è questo seme. In realtà come Ravenna, che ha da sempre investito sullo spettacolo dal vivo, o si ragiona in una logica di rete e di condivisione, oppure sei destinato a sbarrare la strada ad altri artisti.»
Quando avete capito che potevate vivere di teatro?
«Forse fu nel 1997, quando i Fanny&Alexander presentarono Ponti in core a Milano, durante la rassegna “Teatri 90” curata da Antonio Calbi. Quel festival fu la presentazione in società delle nuove compagnie degli anni ’90. Ma i primi guadagni, qualcosa di paragonabile a un piccolo stipendio, arrivarono verso il 2000, quando Veltroni, allora ministro della cultura, decise di aprire una finestra per il finanziamento ministeriale di nuove compagnie di ricerca e innovazione».
Una gavetta di quasi 7 anni prima di poter avere una sicurezza.
«Che è durata pochissimo! Già dal 2001 c’è stato un riflusso, con costanti tagli ai fondi all’innovazione e alla ricerca. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti: i festival chiudono, le stagioni si assottigliano, i linguaggi cambiano. Le giovani compagnie non possono più permettersi un linguaggio troppo radicale, perché non troverebbero spazio. Noi e pochi altri siamo gli ultimi dei mohicani. Stiamo uscendo adesso da questa situazione, lentamente. Ma abbiamo avuto lunghi anni di traversata nel deserto.»
Quale progetto ricordi con più affetto in questa lunga traversata?
«Stranamente il progetto al quale mi sono sentito più vicino, è stato Heliogabalus, in cui io non ero nemmeno in scena».
Adesso abiti a Roma; Luigi si divide fra Belgio e Bologna; Chia­ra è a Ravenna. Questa distanza è una difficoltà?
«Dal punto di vista creativo è una sorta di maturazione del percorso. Bisogna fare come le spore dei funghi! Dopo 25 anni di lavoro, ciascuno di noi è portatore di un percorso specifico, che condividiamo, ma che ognuno deve portare avanti autonomamente.»
Questo è stato un bell’anno per voi. A settembre è arrivato a Chiara il Premio Speciale Ric­cione per l’innovazione drammaturgica.
«Sì, un bell’anno. Quello è un premio importante, perché in Italia abbiamo un’idea precostituita di drammaturgia: si scrive un testo e lo si mette in scena, Punto. Ma la drammaturgia di Chiara è sempre stata in­nervata all’interno degli spettacoli, scritta durante le prove, paritetica a tutti gli altri elementi dello spettacolo. Questo riconoscimento è una bella soddisfazione e spero segni un allargamento delle nostre concezioni.»
Su cosa stai lavorando adesso?
«Le novità sono uno spettacolo che ha debuttato al “Garofano Verde”, rassegna di teatro omosessuale curata da Rodolfo di Giammarco al Teatro India di Roma: Santa Rita & The Spiders from Mars, lavoro che accosta le figure di David Bowie e Paolo Poli sul filo conduttore del trasformismo. Poi sto lavorando coi Bluemotion, per la regia di Giorgina Pi, su un testo fondamentale di Caryl Churchill, Settimo Cielo, per la prima volta sulle scene italiane».

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