Se il dialetto sopravvive ormai solo nella voce artistica

Vent De Cuntreri

Qualche sera fa ho deciso di andare a vedere al teatro Socjale di Piangipane lo spettacolo in dialetto romagnolo E’ vént de cuntrêri, dramma in vari quadri del valente autore e regista ravennate Eugenio Sideri, con l’ausilio di Gianni Parmiani (pure in scena con Tania Eviani, nella foto). L’ho fatto un po’ per nostalgia, visto che il dialetto, pur essendo l’idioma atavico delle mie origini popolari e contadine, lo percepisco sempre meno. E un po’ per curiosità, per capire se il “nostro” dialetto sia definitivamente estinto, come già si paventava negli ultimi decenni del ‘900, o possa sopravvivere, magari, per l’appunto, in forma artistica e poetica. E se in questa veste sia ancora comprensibile e capace di suscitare sensibilità ed emozioni.

Non voglio giudicare la messa in scena dello spettacolo – non sono un critico teatrale – ma posso dire che mi sono “confrontato” con quella parlata dura, spessa e aspra, zeppa di accenti, troncature e dittonghi che se non ti entra dentro, con tutte la sua potenza espressiva, ti respinge, è ostile. Fino a quando non mi sono lasciato andare al flusso sonoro delle parole che ho assorbito senza traduzioni o mediazioni.

In fondo il dialetto è esclusivamente lingua orale il cui suono rievoca significati, visioni, sentimenti immediati. La parola (e scors) va detta, declamata, deve risuonare. L’essenza patetica e tragica, magica e fatalista del dialetto romagnolo affonda in un mondo rurale, povero, ostico e rituale scomparso da tempo, e si esprime più nel profondo e intensamente rispetto all’intonazione comica e farsesca della commedia, della ziruldèla, del motto di spirito, che oggi sembra qua e là riemergere come un relitto. Questo più autentico registro drammatico lo troviamo anche nelle poesie di Raffaello Baldini, Nevio Spadoni, Tonino Guerra, nelle recitazioni di Ivano Marescotti e Giuseppe Bellosi, nella ricerca vocale e drammaturgica di Ermanna Montanari (e a tratti nei suoi folgoranti racconti in L’abbaglio del tempo). Tanto per fare alcuni esempi eclatanti…

In questo contesto di salvaguardia dall’oblio del dialetto va citato l’Istituto Friedrich Schürr (linguista austriaco fra i massimi studiosi dell’idioma romagnolo), fondato nel 1996 con sede a Santo Stefano. Una benemerita associazione culturale, costituita da volontari appassionati ed esperti di antropologia e tradizioni locali, molto ben documentata e presente anche su internet (www. dialettoromagnolo.it). Non credo sia molto nota ai cittadini e non prevedo quali saranno in futuro gli esiti del suo impegno a tutela del dialetto regionale ma, visti i tempi, si può sempre citare uno degli innumerevoli (e ironici) detti romagnoli: Piotòst che gnìt, lè mei piotòst.

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