L’8 marzo? Non è (solo) una questione di donne

In occasione dell’otto marzo, mentre comprate o ricevete la mimosa, fermatevi un attimo a fare l’elenco: sindaco, prefetto, questore, segretari generali dei sindacati, presidenti e direttori di associazioni di categoria (con la meritoria eccezione di Legacoop), direttori dell’Ausl (uno a caso tra gli ultimi che si sono succeduti), presidente della Camera di commercio, direttore generale del Comune, presidente della Provincia, segretari di partito, perfino la girandola dei possibili candidati sindaco o anche i capiredattori o direttori dei giornali. Quanti di questi uomini parteciperanno a uno dei mille mila eventi organizzati in città per la festa della donna? (i saluti di rito non contano). E quanto interessa alle donne che gli uomini partecipino davvero? La domanda non è banale. E per rendersene conto bastava essere sabato 28 febbraio ad ascoltare la scrittrice Michela Murgia alla Casa delle donne (il cui statuto non prevede che gli uomini possano associarsi), davanti a una platea composta da due uomini e decine di donne, che esordiva dicendo: «Il femminismo non è una questione da donne, ma dell’intera società. Fare le cose tra donne per donne rischia di provocare esclusione, di allontanare anche le ragazze più giovani». Ed è una cosa che si sente dire spesso in giro. Poi di rado accade. Come del resto è molto più facile continuare a ripetere come un mantra che le donne sono una gran risorsa anche per le aziende, senza stare a chiedersi perché invece a Ravenna le aziende al femminile non stanno affatto facendo meglio delle altre, secondo i dati della Camera di Commercio. Senza chiedersi perché, salvo quando le quote rosa sono obbligatorie, le donne non si candidano. «Perché a un certo punto le donne hanno anche altro da fare» è una frase che ci si può sentire dire da qualche maschio della classe dirigente. E allora anche qui, a Ravenna, ci vorrebbe forse più coraggio per rompere recinti. Oltre al sito per denunciare le immagine lesive della dignità della donna, che sembra una battaglia un po’ contro i mulini a vento all’epoca di selfie e instagram, perché non far diventare strutturati i progetti per insegnare ai ragazzi a leggere i linguaggi dei media e a interpretarli, un po’ come quello dell’anno scorso, che suscitò pure qualche polemica? Perché non si è rifatto anche senza che ce lo chiedesse la Regione? Se lo scarto vero non può che essere culturale, bisognerà coltivare la consapevolezza trasmettendo le competenze necessarie per esercitare la democrazia. E se questo fa paura a qualcuno, questo dovrà spiegare perché ragazzi più consapevoli e preparati dovrebbero costituire un problema. Per tutti gli altri, in caso di dubbio, si può tornare all’esercizio di cui sopra: questore, prefetto, sindaco…

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