Chi ha paura di Squid Game?

 

In questi giorni di Halloween saranno tanti, immagino, i cosiddetti “boomer” che guarderanno incuriositi, senza capire, questa massa di ragazzi vestiti con tute verdi o rosse, alcuni mascherati, altri forse solo platealmente “insanguinati”.

Il tema Squid Game, d’altronde, è già al centro per esempio della festa del 31 ottobre del Bronson di Madonna dell’Albero, così come sarà presente un po’ ovunque in questi giorni di travestimenti orrorifici, anche nel Ravennate, e anche tra i ragazzi.

Perché la serie tv originale più vista nella storia di Netflix (al primo posto in un centinaio di Paesi, dopo aver registrato qualcosa come 111 milioni di visualizzazioni in nemmeno un mese di programmazione) è un fenomeno arrivato anche tra i più piccoli, a causa degli smartphone, i social, ovviamente anche dei genitori.

Ma è davvero così un problema? Leggendo i media “mainstream” sembrerebbe di sì, sembrerebbe che ci sia davvero chi si scandalizza perché in una serie tv c’è gente che partecipa a un gioco di sopravvivenza inevitabilmente mortale, che i bambini poi potrebbero pure replicare (o addirittura hanno già tentato di replicare, si legge in giro), con tanto di petizioni che chiedono la rimozione della serie dal palinsesto televisivo tutto.

Da queste parti è arrivata perfino una nota stampa di un consigliere comunale (Antonio Emiliano Svezia, da Cervia) per stigmatizzare il tutto, colpevolizzare i genitori, invitandoli a togliere il tablet e il telecomando dalle mani dei figli. Che è quanto di più banale e allo stesso tempo irrealistico si possa scrivere, se si vive nel 2021.

Quello che si può fare, al limite, è guardare con loro, spiegare loro, controllare se sono contenuti appropriati alla loro età (ma soprattutto alla loro sensibilità), eccetera eccetera. Partendo dal fatto che c’è scritto in alto sullo schermo, ben evidente, che Squid Game sarebbe vietato ai minori di 14 anni. Che poi però non vuol dire che non possano comunque vederlo minori di 14 anni, se non così tanto sensibili al sangue finto. Perché, tanto per essere ancora più banali, non è certo un contenuto più violento di altre serie tv più generalmente accettate (l’altro fenomeno Casa di Carta in primis, per dirne una), senza considerare poi la “violenza” di programmi che consegnano tapiri a donne appena tradite dai mariti.

La violenza qui è spesso volutamente spettacolarizzata e resa quasi fumettistica, utilizzata con sarcasmo e per una critica alla società. Perché allora, piuttosto, non cercare di parlare del tema del “gioco” o del mondo fuori che porta i protagonisti della serie a rischiare la vita?

«Un sistema educativo avanzato e non timoroso – scrive sui social lo psicologo ravennate Gianluca Farfaneti, tra i candidati alle ultime elezioni amministrative – discuterebbe di questi temi tramite questa serie tv con i ragazzi, in classe, in dad o in spazi d’ascolto».

Forse, però, discutere, analizzare, parlare con i ragazzi è ancora più complicato che togliergli il telecomando. Ma ci si può provare, senza doversela prendere con una (tra l’altro, purtroppo, nemmeno così indimenticabile) serie tv…

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