Un altro morto sul lavoro

È morto un altro operaio sul lavoro, al porto di Ravenna, nemmeno un anno dopo l’ultima volta. Schiacciato da una bobina d’acciaio.

Alla Marcegaglia, dove poche settimane prima aveva fatto la sua passerella un ministro, con il sindaco di Ravenna che non aveva potuto fare altro che parlare dell’azienda come di «un’eccellenza della nostra città».

Non una parola sulla sicurezza sul lavoro, almeno nei report social che durano un attimo, dove non è il caso di approfondire.
Di certo però il sindaco, le istituzioni, avranno ben presente il problema della sicurezza al porto, e alla Marcegaglia in particolare, dove un altro operaio era morto in circostanze simili sette anni fa. E dove i sindacati parlano di incidenti sfiorati a più riprese.
L’ultimo poche settimane fa, quando – ci scrivevano – una bobina da 3 tonnellate cadde al suolo inaspettatamente, per fortuna in quella occasione senza schiacciare nessuno.

Troppo facile però, dare la colpa alle istituzioni, quando la responsabilità è più diffusa. A partire dalla stampa, che non approfondisce, per scelta o per difficoltà oggettive, non riesce a verificare quello che da anni denunciano i lavoratori (soprattutto tramite i sindacati di base): i turni massacranti, la carenza di personale confermata dalla stessa azienda, la ricerca del profitto a tutti i costi, con richieste di produrre molto probabilmente più di quanto lo stabilimento permetta di fare. Tanto che nel 2020 – scriveva il Partito Comunista in un comunicato di un paio di mesi prima dell’infortunio – Marcegaglia avrebbe incrementato del 13 percento la produzione industriale negli stabilimenti di Ravenna, impiegando però 200 dipendenti in meno e 100 lavoratori esterni in meno. Quanti gli investimenti in sicurezza?

Colpa di tutti, probabilmente, che non ci scandalizziamo abbastanza di fronte a un sistema che favorisce i subappalti, con la conseguenza di avere anche cinque cooperative (quando non sono finte cooperative) fare lo stesso lavoro all’interno di grandi aziende del porto, con operai contrattualizzati però in maniera diversa tra loro, magari al primo giorno di lavoro o senza l’adeguata formazione.

E allo stesso modo, non ci scandalizziamo più neppure quando ci raccontano che in fondo è colpa loro, di chi è morto, che a forza di fare lo stesso lavoro per tanti anni poi una leggerezza può capitare, che bisogna stare più attenti. Come se davvero possa essere tollerabile lavorare per poco più di mille euro al mese sapendo che se ti distrai puoi rischiare di morire.

E così, proprio per questo, non ci sono (quasi) mai colpevoli. Ci sono solo gli indagati (sette, come atto dovuto, a questo giro). Perché la colpa è del sistema, che pare non possa essere cambiato.
E dopo l’ennesimo incidente non si può fare altro che dichiarare alla stampa che non si può, non si può morire di lavoro.
Fino alla successiva morte sul lavoro. O alla visita di un ministro.

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