Dialoghi e memorie su Ravenna e il suo porto
L’idea dello spettacolo nasce da una voce che richiama l’attenzione di Luigi Dadina: è quella di Domenico Mazzotti, morto sul lavoro assieme al collega Marco Saporetti nel marzo del 1947, il cui ricordo è affidato a una lapide posta sotto l’unica gru rimasta in piedi nella vecchia Darsena di Ravenna. Peraltro, questa icona sbrecciata è stata “fissata“ poco tempo fa dal fotografo Adriano Zanni, nell’ambito del suo vasto e conturbante lavoro immaginifico “Cronache e visioni dal Deserto Rosso“, visibile nel suo blog su questo sito.
In scena non ci sono personaggi perchè Dadina e Lamri portano sul palco se stessi come narratori del passato e protagonisti del presente, con l’intenzione non solo di recuperare la memoria ma di trasmetterla alle nuove generazioni, come quella dei musicisti Francesco Giampaoli, Diego Pasini e Lanfranco-Moder-Vicari.
La riflessione sul tempo è il filo conduttore che lega insieme i tre momenti dello spettacolo, svela l’autrice Laura Gambi: «prima c’è il tempo del dubbio e dell’incertezza, la voce di un morto chiama ma non si capisce subito quale sia la sua richiesta, si avverte una mancanza senza riuscire a identificarla; poi c’è il tempo della “ri-memorazione”, in cui si racconta e, attraverso le parole, si rivive la tragedia della Mecnavi, la morte di tredici picchettini soffocati all’interno della nave “Elisabetta Montanari“ nel marzo del 1987; infine c’è il tempo della meraviglia, quello in cui si ritrova il senso delle cose del mondo e di se stessi».
La drammaturgia dello spettacolo è un percorso graduale dalla confusione dovuta alla dimenticanza fino alla chiarezza che deriva dall’aver ricordato, e nel movimento circolare, dal presente al passato per poi tornare al presente, si comprende che la memoria non serve tanto ai morti quanto ai vivi, che per non perdersi hanno bisogno dei punti di rifermento delle storie passate.
La cornice della narrazione è una “conferenza di marzo“, perchè marzo è proprio il mese che ha visto le morti di Mazzotti e Saporetti e degli operai della Mecnavi. I protagonisti si presentano dando le loro generalità: nati ad un giorno, e parecchi chilometri, di distanza, Dadina e Lamri non hanno lo stesso passato ma hanno lo stesso futuro, inevitabilmente legato a quello della loro città, Ravenna. I racconti intimi della vita di Lamri ad Algeri si intrecciano con l’identità ravennate di Dadina, un’identità fluida che viene definita non solo dalle coordinate geografiche ma soprattutto dalle persone incontrate, dalle esperienze vissute. E, come spesso accade, gli occhi dello straniero, che in quanto immigrato non può fare a meno di sentirsi sospeso, qui come ad Algeri, suggeriscono all’autoctono uno sguardo più lucido sulla sua città, non ancora annebbiato dalla familiarità e dall’abitudine.
Sullo sfondo la città, Ravenna, e il porto che ne è fonte di nutrimento e allo stesso tempo luogo di fatica e anche di morte, un organo vitale, come una sorta di visceri, che però i ravennati continuano ad avvertire estraneo, come una parte che non si vuol guardare ma che custodisce l’essenza profonda e i drammi più significativi della comunità. Anche la città subisce lo scorrere del tempo, cambia volto velocemente disperdendo i fantasmi che la abitano, guardiani dei luoghi in cui è rimasto il segno delle generazioni che l’hanno cresciuta. E allora tocca alla memoria restare salda e alle nuove voci raccontare le vecchie storie.
Lo spettacolo si avvale delle scene, dei costumi e delle luci di Piero Fenati ed Elvira Mascanzoni, storici soci fondatori di Ravenna Teatro. Dopo il debutto al Ravenna Festival
“Il Volo“ andrà in scena a Milano il 27 e il 28 giugno (al teatro “La cucina”, per il festival “Da vicino nessuno è normale”) e a Codevigo-Padova, il 5 luglio per il festival “Scene di paglia”, diretto da Fernando Marchiori.