L’Eresia dei non-scuolini, «altro che vacanza»!

A piena voce (2) da Milano

Eresia tribu Martinelli Milano

Sul selciato
della mia anima, battuta in lungo e in largo,
i passi degli alienati
incrociano i calcagni di dure frasi

V. M.

Le tribù sbarcano all’ex Ospedale Psichiatrico “Paolo Pini“ verso le tre. Un grande cancello, graffiti. Resistenza, urla una scritta bianca su sfondo rosso. Il complesso è formato da più strutture immerse in un parco immenso. Un museo d’arte, un bar, un ostello, un portico di cemento, una chiesa, vari padiglioni primo-novecenteschi cinti da recinzioni arrugginite, l’ex cucina trasformata in teatro, giù in fondo, dove alloggeranno i ragazzi.

L’atmosfera non è quella inquietante e squallida che ci si potrebbe aspettare da un ex sanatorio. Nessuna eco delle urla dei pazzi, nessun ricordo di sfrigolii di elettroshock, nessun fantasma di quelle esistenze rotte e sprecate a fare capolino tra i viali alberati dell’istituto. C’è invece una luce morbida nell’aria, una dolcezza eccitata, da risveglio estivo, che ricorda le vacanze in colonia. Le macchine non si sentono quasi. Milano è un vago accenno di palazzi tra i rami degli ippocastani.

 

Cicale e il vociare emozionato delle varie tribù dei non-scuolini, come vengono chiamati dalle guide. C’è chi sbuffa per il caldo; i più scafati chiamano nomi di ragazza a caso Marta!, Valentina!, Giorgia!, per studiare il viso di quelle che si girano. Alcuni si conoscono già, si abbracciano, si aggiornano. Altri si accendono una sigaretta e fanno le presentazioni. «Tra zanzare e caldo sarà dura stasera – sento dire a qualcuno – però che posto, diomio».

 

Chiesa ex ospeddale Psichiatrico Paolo Pini a MilanoParlo con Thomas Emmenegger, psichiatra, la guida del progetto Olinda, grazie al quale è stato possibile organizzare Eresia della felicità a Milano. Mi spiega che quando arrivò qui dalla Svizzera, nel ’92, il sogno basagliano di chiusura degli istituti manicomiali non aveva neanche sfiorato il “Paolo Pini“. Tra le mura dei suoi padiglioni erano recluse più di 500 persone. Oggi è un luogo di convivenza, dove «si fa città», come gli piace dire: c’è un orto botanico, un teatro, campi da calcio. Specularmente all’esperienza triestina di Basaglia, qui, invece che far uscire il manicomio in città, si è fatta entrare la città nel manicomio. Ma d’altronde, come suona il motto di Olinda, da vicino nessuno è normale: tanto meno una città schizofrenica come Milano. Che infatti al manicomio sembra starci benissimo.

«Là dove vedi il bar – mi dice – c’era l’obitorio. Avevano pensato di costruire un manicomio modello, il più grande di Milano, dove poter fare ricerca scientifica. Per questo hanno costruito l’obitorio, che di solito nei manicomi manca del tutto. Studiavano i corpi, catalogavano i disturbi psichici. Crearono un Museo dei reperti anatomici. Durante una festa nel ’96, qui al Paolo Pini sono entrate più di 20 mila persone. È stato un gesto simbolico, senz’altro violento, un segnale per far avvicinare l’istituzione al quartiere, naturalmente sospettoso. E abbiamo vinto, nonostante la ritrosia dei proprietari del Pini, Asl e ospedali. Allo stesso modo, per noi, la non-scuola del Teatro delle Albe è un esperimento diverso rispetto alle altre realtà italiane. Non si tratta di portare il teatro in una classe scolastica già esistente. Si tratta piuttosto di creare una classe qui, tra persone diverse tra loro, con i loro problemi, le loro realtà, e di metterle a confronto».

Verso le sei, i duecento ragazzi delle tribù si ritrovano in mezzo al campo da calcio. Divisi in cinque gruppi regionali, incontrano per la prima volta il regista Marco Martinelli, che cerca di farsi sentire tra il vociare e le risate. Spiega brevemente che cosa succederà domani, al Castello Sforzesco, poi li sprona a farsi avanti, a parlare, a scegliere un inno per la loro tribù. Chi propone un rap, chi una filastrocca.

Esporsi. Esporre. È forse questo il mestiere del regista. Esporsi al ridicolo, alle risate, agli sguardi dei ragazzi scettici come solo loro sanno essere; ma farlo per esporre, per porli fuori, per farli parlare come solo loro sanno parlare.

«Possiamo tornare al bar adesso»?, chiede qualcuno, forse dei ravennati. Martinelli ghigna, divertito: «Se vi hanno detto che sarebbe stata una vacanza, allora vi hanno fregato alla grande».

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