Dalla Bosnia in guerra fino a Ravenna «Non saremmo mai voluti andare via»

Sirka e il marito lasciarono i Balcani negli anni Novanta e finirono nel campo profughi di via Aquileia: «Mi rivedo nei migranti siriani»

«Prima? No, non avevamo mai pensato di andarcene, al massimo di venire in Italia in vacanza. Stavamo benissimo, prima. Prima della guerra». Erano gli inizi degli anni Novanta quando Ravenna fu coinvolta dalla prima grande “emergenza profughi”. Allora erano le persone che fuggivano dalla guerra nella ex Jugoslavia come Sirka Dedeic e il marito, allora trentenni e per i quali non fu certo facile decidere di lasciare la loro città, in Bosnia, vicino al confine con la Croazia per arrivare fino a qui.

«Stavamo bene, avevamo entrambi un buon lavoro. Mio marito è ingegnere meccanico, io ho una laurea in economia e commercio, avevamo appena sistemato la nostra casa, in centro, e nostra figlia aveva poco più di due anni. Non avremmo mai pensato che sarebbe scoppiata la guerra e che ci saremmo trovati costretti a scappare e lasciare tutto».

Quando Sirka e la famiglia arrivano in Italia è il 1993, dopo un anno di peregrinazioni. «All’inizio andammo per un po’ dalle parti di Tuzla, perché la situazione lì era più tranquilla. Poi, quando iniziarono a sparare sempre più vicino alla nostra città, attraversammo un fiume per arrivare in Croazia dove siamo stati accolti a casa di parenti, eravamo veri e proprio sfollati, e dove intanto io ho scoperto di essere incinta del nostro secondo figlio». Il marito resta per qualche mese in Bosnia, prima di decidere di lasciare anch’egli il paese e portare la famiglia in Slovenia, luogo ritenuto più sicuro. È qui, a Lubijana, che nasce il secondo figlio della coppia, «fu un periodo molti difficile, perché nacque prematuro, credo per via anche dello stress della guerra…». Da quanto hanno lasciato la loro casa a quando capiscono no, in Bosnia sarebbe stato impossibile tornare, passa più di un anno. «All’inizio siamo stati in Croazia e poi in Slovenia, anche perché speravamo che la guerra comunque finisse presto e sognavamo di poter tornare a casa nostra. Poi invece abbiamo capito che non sarebbe andata così. A quel punto mio marito voleva andare in Austria, ma intanto qui a Ravenna erano arrivati i suoi genitori e così siamo venuti anche noi, a trovarli. Era un anno che non li vedevamo e non avevano ancora conosciuto il loro nipotino».

Ecco allora che con due bambini piccoli la famiglia arriva nel campo profughi allestito in via Aquileia nel quartiere Darsena. «Non è stato facile, dicevano che non potevamo restare perché non eravamo sull’elenco, anche se avevamo due bambini piccoli. Ma mio suocero, una volta che la famiglia si era finalmente riunita, non voleva saperne di lasciarci andare di nuovo. È stato un periodo durissimo, c’erano giorni in cui per noi dicevano che non c’erano i pasti. Ma mio marito si è dato subito da fare e ha trovato in fretta un lavoro e così, poco dopo, ce ne siamo andati dal centro di accoglienza, appena abbiamo potuto. Da allora viviamo qui a Ravenna, abbiamo ricominciato tutto daccapo». Ma se ricominciare tutto daccapo non è facile per nessuno, di certo non lo è per una famiglia bosniaca in Italia. «Non ci hanno riconosciuto niente, nè titolo di studio, nemmeno la patente. Io faccio la donna di servizio a ore, mio marito monta impianti, ma nessuno di noi due è più riuscito a trovare un lavoro qualificato, come quello che avevamo in Bosnia. Però siamo contenti per i nostri figli che sono cresciuti e sono diventati due bravi ragazzi che studiano e si accontentano di poco e capiscono le nostre difficoltà». La maggiore è laureata in legge, il fratello ha frequentato l’Isia di Faenza, sono ravennati a tutti gli effetti, partecipano alla vita sociale e culturale della città e sono anche molto fieri dei loro genitori. «Tornare indietro? – ci dice infatti Sirka – anni fa ci avevamo pensato, ma lì ora manca il lavoro e i nostri figli sono italiani, no, sarebbe impossibile”. L’ultima domanda è inevitabile, cosa prova e cosa pensa oggi vedendo le immagini dei siriani in fuga dalla guerra? «Ah, poveretti, provo una gran pena per loro. Sta succedendo come a noi, con la guerra, costretti a lasciare tutto, contro la propria volontà e nessuno che mai, prima, avesse pensato che sarebbe potuta succedere una cosa simile».

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