Laureato nel 1979 in Medicina e Chirurgia all’Alma Mater Studiorum di Bologna, Marco Brancaleoni è medico specializzato in malattie cardiovascolari. Nel tempo, la sua attenzione scientifica si è orientata alla sfera della nutrizione e della medicina complementare, con laurea in omeopatia e fitoterapia all’università di Urbino, e un master in Scienze dell’alimentazione alla Sapienza di Roma. Oggi, Brancaleoni è attivo in Romagna e, negli ultimi anni, è in atto una collaborazione con il gastronomo ravennate Franco Chiarini (tra i fondatori di Slow Food e i responsabili del progetto CheftoChef) che ha portato a una pubblicazione a quattro mani sul tema delle liliacee (agli, cipolle e scalogno di Romagna). A partire dal prossimo anno, l’idea è quella di tradurre questa affinità in una serie di incontri sul territorio, volti a coniugare il gusto e la tradizione culinaria all’aspetto medico della nutrizione. «La sfida che attende gli chef nei prossimi anni sarà quella di lavorare il meno possibile le materie prime, preservandone le qualità organolettiche e rendendole al tempo stesso appetibili attraverso impiattamenti e abbinamenti» spiega il medico.
Dottor Brancaleoni, già prima del riconoscimento Unesco il gusto della cucina italiana era apprezzato anche fuori dal Paese. Ma quali sono invece le qualità della cucina tradizionale dal punto di vista nutrizionale?
«La cucina tradizionale italiana è sinonimo di grande qualità, e questo grazie anche alle sue materie prime. Negli ultimi anni è stato fatto un lavoro di valorizzazione importante, dalla riscoperta dei grani antichi alla lavorazione delle farine, sempre più “grezze” e integrali, fino all’attenzione al chilometro zero e alle tipicità del territorio. Pensando alla Romagna, possiamo dire di essere molto fortunati: mare e colline ci offrono una grande varietà di materie prime ed è bello vedere le generazioni più giovani ritornare a coltivare i campi, preferendo la qualità alla quantità, riscoprendo “luoghi balsamici e tempi balsamici”».
Quali piatti della tradizione, spesso etichettati negativamente, sono in realtà salutari?
«Capita sempre più spesso di vedere persone che rifiutano latte e latticini. Escluse determinate intolleranze o allergie, invece, si tratta di alimenti eccezionali. Ovviamente è bene valutare la qualità e la tipologia di formaggio: la ricotta di capra, ad esempio, ha caratteristiche invidiabili dal punto di vita organolettico, è priva di caseina e ricca di lattoferrina e emoglobina. Anche i formaggi stagionati hanno ottime proprietà e andrebbero inseriti in una dieta bilanciata, come alimenti naturalmente fermentati e ricchi di aminoacidi».
Quali invece sarebbe meglio limitare?
«Tutti quegli alimenti raffinati e ricchi di zuccheri, tra cui i nostri dolci della tradizione. Siamo tendenzialmente golosi e tendiamo ad abusarne, ma dovremmo preferire alimenti più difficili da assimilare, in modo da prevenire i picchi glicemici. Prendiamo la pasta ad esempio, caposaldo della tradizione italiana: un modo per consumarla limitandone le ripercussioni negative è quello di sceglierla di grano duro, cucinarla al dente, condirla con un filo d’olio e lasciarla raffreddare un po’ prima di assaggiarla. Per quello che riguarda gli spuntini dei più piccoli, anche a scuola, un frutto è un ottimo sostituto delle merendine confezionate».
Per quanto riguarda il consumo di carne invece, esiste un modo per coniugare tradizione, salute e sostenibilità?
«Evitare la carne di animali allevati in batteria in favore di quella proveniente da piccole aziende. L’uomo è onnivoro per natura, ma il consumo di carne andrebbe limitato per questioni ambientali e di salute, oltre che modulato in base a eventuali problematiche personali. Consumare carne bianca un paio di volte a settimana è perfettamente accettabile, così come lo è il consumo occasionale di carne rossa. L’importante è mantenere una sana rotazione, visto che ne abbiamo la possibilità. I legumi ad esempio sono un ottimo alleato: in Romagna tendiamo a considerarli come un contorno, ma se associati a uova, pesce o verdure diventano un alimento base di una dieta equilibrata e completa».
C’è qualche piatto tradizionale a cui sarebbe meglio prestare attenzione durante le feste?
«Di nuovo i dolci. È importante non abusarne, anche perché arrivano a fine pasto, quando siamo già sazi e continuiamo a mangiare per gola. In generale, sarebbe meglio mantenersi attivi e cercare di “spendere” le calorie ingerite con i pranzi festivi, magari con una camminata o un po’ di attività fisica. Se a mezzogiorno si è esagerato, il consiglio è anche quello di restare il più leggeri possibili alla sera, sostituendo la cena con una tisana calda».
Quando si parla di superfood invece si rivolge spesso lo sguardo a est, tra bacche di goji, alghe o miso. Ma esiste anche qualche superfood nostrano?
«Ne abbiamo tantissimi, ma come spesso accade ci dimostriamo più bravi a valorizzare ciò che viene dall’estero invece di quel che abbiamo in Italia. Sebbene le bacche di goji siano molto in voga, mirtilli, lamponi e frutti rossi dei nostri boschi hanno caratteristiche simili. In generale, dovremmo imparare a sfruttare al meglio le verdure del nostro territorio, seguendo la stagionalità. Nel periodo invernale spazio alle crucifere: broccoli, cavoli, cime di rapa, verze, ortaggi versatili e dalle proprietà antiossidanti che hanno poco o nulla da invidiare alle celebri bacche orientali…».
Come sono cambiate le abitudini alimentari degli italiani negli anni e come si evolveranno in futuro?
«Negli ultimi tempi sempre più famiglie scelgono cibi pronti, e la tendenza è destinata a crescere. I ritmi sono sempre più frenetici e il tempo per cucinare è poco. Le aziende che preparano questi pasti dovranno alzare sempre di più la qualità, cosa che sta già accadendo, e orientarsi verso scelte non solo gustose, ma anche salutari. Nei prossimi anni troveremo sugli scaffali pasti pronti più bilanciati, con carboidrati di difficile assorbimento e grassi prevalentemente insaturi. Per il resto, non sono richiesti grandi cambiamenti: la dieta mediterranea su cui si basa la nostra alimentazione è eccezionale, ma andrebbe rimodulata secondo il dispendio calorico odierno. Alcuni abbinamenti e quantità potevano funzionare negli anni ’60, quando il lavoro era principalmente fisico, oggi dovremmo restare più leggeri per assecondare lo stile di vita più sedentario e riscoprire il cibo non solo come nutrimento, ma come metodo di cura».
Parlando di vino invece, oggi messo spesso in discussione, è un aspetto della cultura italiana da tutelare o sarebbe meglio limitarne il consumo?
«È una tipicità da conservare. Anche qui però, qualità e quantità giocano un ruolo importante. A livello calorico un calice di vino conta dalle 90 alle 110 calorie. Non è poco, ma è comunque possibile consumarlo occasionalmente all’interno dei pasti. Il vino rosso poi è ricco di polifenoli, molecole organiche che fungono da antiossidante naturale. Così come per l’alimentazione la moderazione rimane fondamentale».



