lunedì
29 Dicembre 2025
l'intervista

Segrè: «Il riconoscimento Unesco sul cibo rafforza la centralità della Romagna»

Il presidente della Fondazione Artusi: «Le discussioni sul ripieno del cappelletto sono un segno di vitalità culturale»

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Dopo il riconoscimento della cucina italiana come patrimonio Unesco dell’umanità, il 15 dicembre la Regione Emilia-Romagna ha siglato un protocollo d’intesa con la Fondazione Casa Artusi per promuovere e valorizzare il patrimonio agroalimentare del territorio. Ne abbiamo parlato con Andrea Segrè, presidente della Fondazione Artusi e docente di Economia circolare e politiche per lo sviluppo sostenibile all’Università di Bologna.

Cosa significa il riconoscimento Unesco per la cucina italiana e romagnola in particolare?

«Significa che la cucina italiana viene riconosciuta come pratica culturale viva, fatta di gesti quotidiani, relazioni, saperi trasmessi nel tempo. Non è un premio a una ricetta, ma al modo in cui cuciniamo e mangiamo insieme. Per la Romagna questo ha un valore speciale, perché qui la cucina è profondamente domestica e conviviale: è la cucina delle azdore, delle sfogline, delle tavole familiari e delle feste di paese. La cucina romagnola incarna perfettamente lo spirito della candidatura: semplicità, qualità degli ingredienti, legame col territorio e capacità di trasformare pochi elementi in identità condivisa. Il riconoscimento Unesco rafforza dunque la centralità della Romagna come uno dei cuori culturali della cucina italiana».

Anche nella cucina romagnola ci sono campanilismi tra città; pensiamo per esempio alle discussioni sul ripieno del cappelletto tra Ravenna e Rimini. Si può parlare davvero di differenze o si tratta di normali varianti di un’unica tradizione?

«Sono varianti legittime di un’unica tradizione. È proprio questa pluralità a rendere la cucina romagnola così ricca. Le discussioni sul ripieno del cappelletto non sono segno di divisione, ma di vitalità culturale. Ogni città, ogni valle, spesso ogni famiglia ha adattato la ricetta agli ingredienti disponibili, alle abitudini locali, alle memorie domestiche. Il riconoscimento Unesco valorizza proprio questo: non una versione “ufficiale”, bensì la diversità bioculturale che rende la tradizione viva. Il campanilismo, se resta giocoso e non ideologico, è parte integrante della nostra storia gastronomica».

L’industria alimentare oggi fornisce alimenti pronti e veloci da preparare, che rispondono ai ritmi di vita contemporanei, con poco tempo da dedicare alla cucina. Che differenza c’è fra un raviolo confezionato e uno fatto in casa, sul piano della salute ma anche della socialità?

«La differenza non è solo nel prodotto, ma nel processo. Un raviolo fatto in casa non è soltanto cibo: è tempo condiviso, trasmissione di saperi, relazione tra generazioni. È un gesto che crea comunità. Il raviolo confezionato risponde a esigenze reali della vita contemporanea, ma col venir meno del suo valore simbolico si indeboliscono la convivialità e il ruolo educativo della cucina. Non si tratta di demonizzare l’industria; al contrario dobbiamo promuovere la sua qualità. Ma non dobbiamo rinunciare del tutto alla pratica domestica, che è il vero pilastro della cucina italiana».

L’accesso al cibo sano non è per tutti. Gli alimenti processati costano meno, ma fanno anche male alla salute; mentre quelli biologici e naturali hanno un prezzo maggiore. Di conseguenza i più poveri mangiano peggio.

«È una delle grandi contraddizioni del nostro tempo ed è anche una questione di giustizia sociale. Oggi chi ha meno risorse economiche è spesso costretto a scegliere cibi meno sani, più economici ma più dannosi per la salute. Questo dimostra che il tema del cibo non è solo individuale, ma politico e culturale. Servono politiche pubbliche che rendano accessibile il cibo buono, ma anche per un’educazione alimentare diffusa, mense scolastiche di qualità, sostegno alle filiere locali. La cucina italiana patrimonio Unesco non può essere un privilegio per pochi: deve restare un bene comune, accessibile a tutti».

Il cibo è anche turismo; molte persone scelgono una meta per le vacanze anche per le sue tipicità gastronomiche. Questo vale anche a Ravenna, dove si possono mangiare i cappelletti dopo avere visitato i monumenti: oggi entrambi sono patrimonio Unesco. Nel nostro territorio il turismo gastronomico funziona o potrebbe essere promosso meglio?

«Funziona, ma può e deve essere promosso meglio. Ravenna è un esempio straordinario: qui convivono monumenti patrimonio Unesco e una cucina fortemente identitaria. Mangiare cappelletti dopo aver visitato i mosaici non è solo turismo, è esperienza culturale integrata. Il territorio ha tutte le carte in regola per rafforzare il turismo gastronomico: prodotti locali, tradizioni riconoscibili, ristorazione diffusa, cultura dell’accoglienza. Serve però una strategia più coordinata che metta insieme cultura, cibo e paesaggio, raccontando la Romagna non solo come destinazione balneare o artistica, ma come terra di cucina domestica e conviviale. Il riconoscimento Unesco può essere una leva straordinaria in questa direzione».

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