mercoledì
31 Dicembre 2025
cucina italiana unesco

«Non buttiamo in retorica un patrimonio mondiale…»

L’appello di Franco Chiarini, tra i fondatori dell’associazione Chef to Chef, per creare un vero e proprio distretto della gastronomia

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«Italia sì, Italia no, Italia gnamme, se famo du spaghi
Italia sob, Italia prot, la terra dei cachi
Una pizza in compagnia, una pizza da solo
Un totale di due pizze e l’Italia è questa qua»
(Elio e le Storie tese, “La Terra dei Cachi”)

La cucina italiana patrimonio Unesco dell’umanità ormai è un tormentone, ne parlano tutti e in tanti ne rivendicano il merito. E nessuno può disconoscere l’orgoglio e l’euforia del Bel Paese a tavola. Oltre a sbandierarlo, adesso che ce ne facciamo di questo titolo? Ne parliamo con il ravennate Franco Chiarini, infaticabile gourmet, fine degustatore e conoscitore di ingredienti e preparazioni culinarie, già tra i fondatori di Slow Food e di ChefToChef Emilia-Romagna, associazione di gourmet e cuochi, produttori e artigiani del cibo.

«Certo siamo un patrimonio mondiale ed è un bene – esordisce Chiarini – ma il rischio è di buttarla in retorica e di strumentalizzazioni propagandistiche, e poi di non capirne il senso profondo, restando alla superficie di una sorta di ricettario nazionale, del divismo creativo degli chef da copertina, oppure di tradizioni o categorie di tutela ingessate e anacronistiche. D’altra parte, bisogna ringraziare, invece chi, come Massimo Bottura, il cuoco italiano pensante oltreché spadellante, fin dagli esordi ha colto e coltivato un vasto sistema di relazioni nel mondo della gastronomia, che non è solo estro ma anche sostanza, intrecci fra dimensioni sociali ed economiche, oscillazioni fra alto e basso, miseria e nobiltà».

Perché c’è chi ci ha insegnato che nell’arco temporale non c’è solo la Grande storia ma anche innumerevoli Microstorie che rivelano varianti e mutamenti…
«Certo, è da tempo che anche l’identità gastronomica è stata svelata come serie di scambi e contaminazioni, che si sono evolute nel tempo. Paradossalmente si parla di “patrimonio immateriale” ma si tratta del concetto più ampio di “cultura materiale”, in cui il mangiare, la cucina, hanno un loro primato. E questo metodo di comprensione lo dobbiamo alla scuola storica francese degli Annales del secolo scorso e anche a vari studiosi italiani, da Ginzburg a Camporesi da Meldini a Montanari, tanto per citarne alcuni…».

Quindi come interpretare questo riconoscimento mondiale?
«Cogliamo l’occasione e rendiamo esplicita questa sapienza e profondità di pensiero, queste ricerche, sul senso autentico del cibo e della cucina. Perché purtroppo sono molteplici, troppi, i protagonisti e gli addetti del mondo dell’alimentazione e della ristorazione incoscienti o refrattari a questa visione che va ben oltre i limiti del proprio mestiere. Oggi abbiamo il dovere di prendere in mano, anche in termini di sviluppo economico, la situazione delle reti sociali e professionali che ruotano intorno al cibo – contadini, allevatori, artigiani, industrie di trasformazione, commercianti, ristoratori, aggiungo architetti e medici specialisti in alimentazione, e infine consumatori consapevoli».

E poi che cosa si combina?
«Bisogna immaginare un progetto fondato su di un areale di diffusione e condivisione concreta di scambi, un territorio dove sperimentare i legami, le convenienze, le responsabilità. Prima si parlava di storie, attualmente gli interscambi nella filiera alimentare e gastronomica restano ancora troppo casuali, improvvisati, effimeri. Servirebbe una pianificazione più puntuale e sistematica, un’alleanza più solida e consapevole fra i vari attori del settore se vogliamo puntare a un futuro non occasionale. Non mi sembra ci siano tante altre strade…».

Ti riferisci a una sorta di distretto della gastronomia, sulla falsariga di altri settori dell’economia?
«Proprio così, perimetri di dimensioni territoriali dove ci sono le condizioni per ottenere profitto abbattendo i costi, anche sociali e ambientali, dove la domanda incontra efficacemente l’offerta. Dove però entrambe si fondano sulla richiesta e proposta di qualità. Che è un equilibrio fondamentale anche per “salvare” certi prodotti tipici della biodiversità, che altrimenti rischiano di scomparire, e riqualificare, ad esempio, il mercato (compresa la grande distribuzione) e la ristorazione».

E questo territorio potrebbe essere la Romagna?
«Beh, come dice l’etnologo e poeta Giuseppe Bellosi, “c’è domanda di Romagna”, ed è una possibile prospettiva, come dicevo, di sperimentazione. In campo alimentare ed enogastronomico ha una filiera ricca ma ancora eccessivamente frammentata che però ha le potenzialità per fare squadra».

A proposito della Romagna della ristorazione, anche qui la retorica di caplet, tajadel e gardela, che vede i locali sempre pieni, non rende giustizia a una diffusa sommarietà e sciatteria dell’offerta culinaria…
«Secondo la cosiddetta “società signorile di massa”, osservata dal sociologo Luca Ricolfi, la gente non rinuncia agli agi del consumismo, fra cui il privilegio di mangiar fuori appena può. Una consuetudine dove la qualità e cortesia in tavola sono relative, conta più la quantità e la convivialità. Il rapporto domanda e offerta allora tende al ribasso».

Torniamo a un progetto di valorizzazione e salto di qualità del campo agroalimentare ed enogastronomico, quali sarebbero gli obiettivi e i fautori?
«Uno è quello sociale che va dalla battaglia politica sul diritto all’alimentazione al contrasto alla povertà che non può prescindere da un intervento fattivo e concreto delle istituzioni pubbliche. Non si può limitare a interventi occasionali di certi ristoratori illuminati e solo al volontariato laico ma emergenziale. Quello che dovrebbe essere un piano sistematico oggi è delegato al mondo cattolico, con le pur encomiabili mense per i poveri. Ma non si risolve il problema delle diseguaglianze sociali solo con la carità. Tanto per fare un esempio, a Ravenna, l’iniziativa sperimentale sul “piatto sospeso” da donare a chi ne aveva bisogno in un locale o in un negozio gastronomico è fallita per mancanza di organizzazione e di sostegni pubblici e privati. D’altra parte, bisognerebbe educare i cittadini sul tema dello spreco alimentare e alla cucina di recupero degli scarti. Oggi ci si limita a delegare Hera alla raccolta differenziata del “rifiuto organico” per farne del compost».

E per il ramo della ristorazione e del consumo di cibi?
«Dopo varie ricerche in campo scientifico, sulla struttura e composizione biochimica delle materie prime, oggi sarebbe opportuno sfruttare e divulgare per chi sta in cucina le ricerche in campo medico e nutraceutico, cioè degli alimenti dotati di proprietà curative e preventive per la salute. Che potrebbe e dovrebbe chiarire tutte le problematiche legate ad allergie e intolleranze a materie prime alimentari come cereali, formaggi, latte crudo, tanto per fare qualche esempio, senza sottovalutazioni ma anche senza allarmismi privi di fondamento».

E come fare con la base produttiva e di trasformazione delle materie prime?
«La dimensione e funzione economica primaria è importantissima ma non può prescindere oggi e in futuro dalla sostenibilità ambientale e biologica. La salvaguardia della biodiversità e della salubrità dei prodotti è una premessa fondamentale. Sono le radici e la struttura dell’albero dell’alimentazione ed è stupido e controproducente inquinarne il legno o segare il ramo sui cui sediamo e fondiamo la tavola che vogliamo buona e sana».

E che fine farà la “cucina di casa”, l’alimentazione domestica?
«È già estinta, perché non c’è più la famiglia, o almeno quella che conoscevamo un tempo. Si abita magari sotto lo stesso tetto ma ci sono tempi e modi diversi di cibarsi, esigenze molteplici, problematiche di intolleranze alimentari o ideologie salutiste. C’era un’economia e una praticità alimentare che oggi è impossibile da perseguire e conciliare. Bisognerà rivedere e ripensare anche a questo fattore dirompente, con la progressiva scomparsa delle nonne e delle mamme casalinghe. Altro che retorica o nostalgia della famigliola riunita attorno al desco della buona cucina italiana, romagnola nel nostro caso».

Fausto Piazza

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