La piadina come ideologia, nella battaglia tra Ravenna e Cesena

Francesco FarabegoliRicetta della piadina di mia mamma, dose per 4 piade circa: 500 grammi di farina 00, 4 cucchiai di olio d’oliva, sale qb, un pizzico di bicarbonato (pochissimo altrimenti vien troppo gialla). Impastate con acqua calda fino a ottenere una palla unica, potete fare a mano ma una planetaria va benissimo. Una volta ottenuto un bell’impasto ruvido chiudetelo in un sacchetto di plastica e fatelo riposare per un’oretta, lo tagliate in 4 palline uguali, le tirate col matterello e le mettete a cuocere. No, non c’è un ingrediente segreto. No, non c’è lo strutto (potete usarlo al posto dell’olio, viene più buona ma io preferisco con l’olio). L’unica cosa che potete sbagliare è l’attrezzo per cuocerla: per fare un buon lavoro serve una teglia di ghisa grezza che trovate su internet (“teglia ghisa per piadina”) a una trentina di euro, o una teglia di terracotta che però è un po’ più difficile da trovare, costa uno sbreco di soldi e non dà il meglio di sé con il fornello a gas.

Ripasso mentalmente la ricetta della piadina di mia mamma tutte le volte che mi trovo impantanato in una di quelle discussioni fratricide tra membri di diverse comunità romagnole disposti idealmente ad uccidere il prossimo perché utilizza strutto, latte, lievito del fornaio, altre farine o amenità con cui rendere meno banale l’impasto (rosmarino, ciccioli, curcuma). Voglio dire, cosa può essere più stupido di giurarla a qualcuno per come impasta un pugno di farina?

Eppure ho ancora in mente lo shock che mi provocò il primo acquisto di piadina nella città di Ravenna. Era forse il 1998, le piadine si pagavano ancora in lire, io mi fermai a questo baracchino vicino a un negozio (baracchino è un termine cesenate che indica il baracchino della piadina), chiesi 4 o 5 piadine da portare a casa di qualcuno; la donna dietro al banco non fece una piega, estrasse 4 o 5 piadine fredde da una pila di piade che aveva cucinato forse il giorno prima, le chiuse in un sacchetto di plastica e me le allungò. Io pagai con gli occhi sbarrati e portai a casa le piadine, morbide e spugnose come dei marshmallow. Com’è possibile, pensavo, tenere in piedi un baracchino servendo piadine precotte in un sacchetto di plastica? Non sarebbe meglio, a questo punto, lasciare il campo libero allo strapotere delle prepiadine vendute al supermercato? La compagnia di ravennati che frequentavo all’epoca, in ogni caso, dimostrò di non capire. Più tardi ho compreso il motivo di questa incomprensione, al secondo-terzo ordine di piade: nei baracchini di Ravenna si usa così, nessuno ha problemi con questa cosa, nessuno ha un vero accesso alle alternative.

Su questa frattura culturale ho impostato quella che per anni ho raccontato essere una battaglia per la civiltà e che in realtà era un modo come tanti altri per vendere la superiorità della piadina cesenate in terra straniera. Per certi versi è una differenza che continua oggi, un quarto di secolo dopo, in qualche aspetto. La battaglia tra la piadina di Cesena e quella di Ravenna continua ancora oggi, ha lasciato per terra qualche cadavere eccellente, entrambe le città sono troppe orgogliose per abbandonare i capisaldi della loro weltanschauung. Cesena lavora sulla piadina in quanto tale e rimane attaccata alla tradizione. Fino allo scorso decennio era sostanzialmente impossibile trovare in un baracchino qualcosa che non fosse piadina o crescioni, per i quali erano concepibili sì e no sette farciture in tutto, che guardavano storto chiunque chiedesse se si potesse averne senza strutto nell’impasto (per dire: un baracchino a Bertinoro aveva imparato a farla con l’olio ed è stato per vent’anni un punto di riferimento della scena straight edge romagnola). Per molto tempo i prezzi sono rimasti un pelo più popolari e i crescioni sono rimasti più grandi (ancor oggi, quando porto a casa i crescioni del mio baracchino cesenate preferito, le persone mi chiedono se ho dovuto esibire il porto d’armi). A Ravenna per quel giorno era già possibile trovare crescioncini alla nutella, cappelletti di piadina, rotoli e piadipizze, con menu alla carta che potevano occupare un foglio A3. Più di tutte, Ravenna concepiva già una cosa di cui a Cesena non si trovava traccia, un’idea semplice e geniale che chiamate pizza fritta, che forse è un tradimento ideologico ma è anche una delle principali cause dei miei chili di troppo.

È una diversità che tradisce le differenze ideologiche alla base dell’idea stessa di comunità presente nelle due cittadine: Ravenna è global e fa affari col mondo, Cesena è local e vende più che altro ai suoi cittadini. La visione cesenate fa stare meglio, ma la visione ravennate vincerà: troppi lati positivi, troppa versatilità, troppa assonanza con l’evolversi della società occidentale. Ed è così che oggi non è infrequente trovare anche a Cesena baracchini che offrono menu sterminati, piadipizze gourmet, pizza alla pala, kebabburger e qualunque altra diavoleria possa venirvi in mente di consumare a pranzo o cena. E così anche a Cesena, soprattutto nella Cesena più esposta al pubblico, i prezzi sono saliti. E qualche piadina vuota, non più al centro del progetto, ha iniziato a finire dentro al sacchetto di plastica.

* Cesenate trapiantato a Ravenna, Francesco Farabegoli scrive o ha scritto su riviste culturali come Vice, Rumore, Esquire, Prismo, Il tascabile, Not

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