L’Islam visto da dentro, in uno spettacolo “epistolare”: parla il regista Sangati

Al teatro Alighieri la prima nazionale di “Lettere a Nour”, con Franco Branciaroli. La nostra intervista

Giorgio Sangati

Giorgio Sangati

Giorgio Sangati, classe 1981, è il regista di Lettere a Nour, primo adattamento teatrale italiano dell’omonimo libro di Rachid Benzine, islamologo franco-marocchino. Come vuole la migliore tradizione letteraria francese, si tratta di un romanzo epistolare, incentrato sulla storia di un padre, intellettuale islamico progressista, e di sua figlia, Nour, che giovanissima scappa in Iraq per combattere nello Stato Islamico. Uno scontro allo stesso tempo religioso e famigliare, che ci aiuta a scavare più a fondo per comprendere le ragioni di una scelta incomprensibile ai nostri occhi di occidentali blasé. Abbiamo chiesto al regista veneto il suo sguardo per prepararci alla prima nazionale dello spettacolo, ospitata dal Ravenna Festival (il 14 giugno al Teatro Alighieri), che vedrà in scena Franco Branciaroli e Marina Occhionero.

Il testo di Rachid Benzine non è stato ancora tradotto in italiano. Come l’ha incontrato?
«Il punto di partenza è la visione da parte di Claudio Longhi, direttore di ERT, della messa in scena francese ad Avignone. Da lì è nata l’idea che si potesse trattare di un materiale interessante anche per il pubblico italiano».
Cosa l’ha colpita di questo testo?
«Il testo ha il pregio di affrontare il problema all’interno dell’Islam. I due protagonisti non sono di religioni diverse e per di più hanno punti di vista che difficilmente prenderemmo in considerazione. Siamo abituati a parlare di orrore da una parte e ragione dell’altra: il testo ci mette in una posizione più scomoda come spettatori, perché ci fa superare l’etichetta dell’incomprensibile».
Una visione meno manichea del fenomeno.
«Assolutamente. Questo anche perché il testo affronta la Storia attuale attraverso una storia famigliare. Le vicende personali, nel rapporto fra padre e figlia, non sono secondarie rispetto alle scelte che portano Nour a partire. La biografia diventa il grimaldello per parlare di una questione spinosa».
La sinossi dello spettacolo mi ha ricordato, mutatis mutandis, American Pastoral di Philip Roth.
«Il riferimento a Roth è giustissimo: allarga la questione dal punto di vista religioso a quello generazionale. Il padre ha cresciuto Nour proteggendola dal dolore e dalla sofferenza. Quando Nour arriva ad avere un’autonomia, ha l’esigenza di rompere questo meccanismo di rimozione; e lo fa come spesso succede a quell’età, andando alla ricerca dell’opposto, buttandosi nella vita – e quindi nel dolore, nella morte. Tutto ciò ha una valenza generazionale».
In che senso?
«Questa nuova generazione cerca un coraggio, un’azione che la generazione precedente aveva cristallizzato per motivi sociali ed economici. Il padre di Nour era giovane quando l’Europa era in costruzione, in piena espansione economica. Il mondo di oggi ha perso questa stabilità: è diventato anacronistico averne fiducia. Nour, al contrario, si butta nella mischia».
Lettere a Nour è un romanzo epistolare. Come ha adattato questa forma al teatro?
«Le lettere non hanno forma dialogica, sono come piccoli monologhi. Occorre capire che differenza c’è fra i due scriventi, in che modo ricevono queste lettere. Il flusso di comunicazione non è bilanciato. Il mio lavoro è consistito nella ricostruzione di uno spazio interiore: mi piace pensare che queste lettere siano come delle visite, momenti di una grande intimità, che addirittura supera quella del dialogo diretto. Le lettere lavorano di sponda: non dicono tutto quello che vorrebbero comunicare, e ciò le rende ancora più vere. L’obbiettivo è portare sulla scena questo effetto narrativo».
Lo spettacolo affianca un mostro sacro come Branciaroli con una giovane promessa, la Occhionero. Come ha lavorato su questa coppia?
«La differenza fra i due diventa calzante per questo testo. Branciaroli è davvero un mostro sacro, ha un’esperienza incredibile sui palcoscenici. Dall’altra abbiamo un’attrice promettente, ma che ha calcato molte meno scene. Nella metafora teatrale i due traslano a un altro livello lo scontro generazionale raccontato nel libro».
Per quanto riguarda le musiche?
«Sul palco, in scena con gli attori, ci sarà un trio ravennate, i Mothra di Fabio Mina, Peppe Frana e Marco Zanotti, che si muove sul confine tra sonorità occidentali e orientali. L’idea è che si crei una scenografia sonora: raccontare l’esperienza di Nour attraverso una vibrazione musicale, contrapposta a un silenzio occidentale che sa di morte».
Dice che il testo parte da un punto di vista interno all’Islam, ma mi pare che si possa dire che è anche interno all’Europa.
«Esatto. Noi occidentali non siamo diversi dal padre, che non si smuove dalla sua posizione culturale e geografica. Nour gli chiede di avvicinarsi, di vedere coi suoi occhi: questo rifiuto alla comprensione è analogo quello che commettiamo noi europei. Nour dice che la sua volontà è quella di realizzare ciò che il padre le ha insegnato – il testo fa spesso riferimento ad una teologia della liberazione islamica che aveva avuto un certo successo politico negli stati arabi. Sappiamo come è andata».
Come mai il padre non parte mai alla ricerca della figlia?
«È una bellissima domanda a cui temo di non avere una risposta. Dal testo di evince che non lo fa e non lo prende mai in considerazione, a riprova del fatto che non si salva nessuno, nemmeno il padre, figura sicuramente più vicina all’autore. Questo dimostra la grande raffinatezza intellettuale di Benzine, un teologo aperto, che non difende le sue posizioni ad oltranza».
Secondo lei perché non parte?
«Credo che sia una critica all’eccessiva razionalità occidentale. Viviamo una scissione fra il parlare della vita e viverla. Nour la vive, in modo drammatico e discutibile. Il padre si protegge, si costruisce una torre d’avorio: quella protezione, che potrebbe sembrare puramente passiva, è in realtà un’aggressione alla figlia. Fare del bene, paradossalmente, può nascondere azioni molto violente; e viceversa, azioni violente possono nascondere un atteggiamento liberatorio».
Cosa intende?
«L’Occidente, come il padre, pensa di salvarsi proteggendosi dall’irrazionalità. Ma non c’è nessuna salvezza nella rimozione. Censurarla significa farla emergere in forme violente».
Un approccio del genere non rischia di deresponsabilizzare la scelta dei foreign fighters?
«No. Non c’è un giudizio esterno sul percorso di Nour. È lei stessa a rendersi conto che il movimento a cui ha aderito, lungi dall’essere un moto di liberazione e di rinnovamento, è corrotto alla radice. Una frase del testo dice: «L’Occidente e lo Stato Islamico non sono che due facce della stessa medaglia». È un’epifania di Nour, che arriva solo alla fine di un percorso drammatico che modificherà la sua esistenza».
Comprendere non significa giustificare.
«Esatto. Comprendere significa rompere uno stereotipo e avere il coraggio di prendere un punto di vista diverso. È la grande qualità del teatro; le risposte le darà il pubblico».

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