Barbie è sicuramente l’evento dell’estate, il mega blockbuster d”autore con protagonisti “Barbie” Margot Robbie e “Ken” Ryan Gosling. La regista del film è Greta Gerwig, sceneggiatrice insieme al compagno Noah Baumbach. La coppia è molto nota nel cinema indie autoriale americano: lei ha diretto i bei film Lady Bird (2017) e Piccole Donne (2019) ed è attrice, tra cui l’ultimo ruolo per il compagno regista Baumbach in Rumore Bianco (2022); ricorderete poi Baumbach anche come sceneggiatore per Wes Anderson (Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Fantastic Mr. Fox) e come regista di film belli e intensi quali The Meyerowitz Stories (2017) e Storia di un matrimonio (2019).
Veniamo alla nostra Barbie, che nel film della Gerwig vive nel mondo parallelo di Barbieland, dove tutto è perfetto e le Barbie trascorrono una vita senza tempo fatta di feste insieme ai Ken. Ma il suo equilibrio di immacolata e asessuata perfezione viene sconvolto da alcuni segnali molto strani: vaghi pensieri di morte, i piedi che diventano piatti, la cellulite che avanza. Per capire cosa le sta succedendo, Barbie dovrà viaggiare nel mondo reale insieme al suo fedele Ken, e trovare la bambina che gioca con lei. Il problema è che, arrivati nel mondo reale, la Mattel vuole riportarla in una scatola e Ken scopre che lì comandano gli uomini, vige cioè il Patriarcato, al contrario di Barbieland… Ne segue una trama troppo contorta che vorrebbe evocare il viaggio attraverso lo specchio di Alice, il Mago di Oz, un Pinocchio al femminile, ma che si sfarina spesso tra marketing pilotato e blandissimi tentativi di trasmettere un pensiero politicamente corretto.
Al netto di alcuni omaggi cinefili (l’inizio alla 2001 Odissea nello spazio), Barbie è un simpatico giocattolone in cui il tentativo di abbinare blockbuster, marketing e autorialità fallisce impietosamente. La bambola Barbie ha un’evoluzione alla Pinocchio in cui purtroppo il Femminismo è proposto in termini buonisti e poco conflittuali, che porta a una contrapposizione più da battaglia dei sessi in versione screwball comedy che a un’autentica e cosciente ribellione contro le strutture del vero Patriarcato, un pinkwashing con tranquillizzante autoassoluzione per tutti. Il tema dei rapporti di coppia, sempre centrale nei film di Gerwig e Baumbach, qui è ridotto a una sbiadita favoletta in cui tutto si ricompone senza drammi. Paradossalmente, il personaggio più interessante è Ken, fedele a Barbie come uno stupido cagnolino (ma in Barbie tutti i Ken e tutti gli uomini sono stupidi) e la cui scoperta del potere maschile si scontra con la sua incapacità di fare qualsiasi cosa e la sua dipendenza ontologica da Barbie, riassunta nella tagline Lei può essere tutto ciò che vuole. Lui è solo Ken, un edulcorato maschilismo da cartone animato in cui Ken in realtà invidia tutti i Big Jim.
Noterete che una delle gag ricorrenti è che quasi tutte le donne si chiamano Barbie e quasi tutti gli uomini si chiamano Ken, con evidente effetto comico. L’idea dei nomi tutti uguali avrebbe potuto portare a una magnifica riflessione sulla spersonalizzazione dell’identità in una società massificata. Ma questa possibile implicazione distopica (anche volendo in forma comedy) rientra subito nei ranghi di una felicissima utopia che costa poco sforzo se non quello di accettarsi per come si è, eterni membri di un Collettivo Borg in rosa e sempre sorridenti.
Un po’ poco per essere un film autoriale, abbastanza per farne un film commerciale senza particolari pretese.