Da Venezia, dove ha vinto l’Osella per la miglior sceneggiatura, è subito su Netflix l’ultimo bel film del cileno Pablo Larraìn: El Conde, una commedia dark/horror nella quale il dittatore cileno Augusto Pinochet non è mai morto e in realtà è un vampiro che ha 250 anni e che ora vive nascosto, insieme alla moglie e al fedele e crudele servitore, dopo aver finto la sua morte.
Larraín ha sempre affrontato con grande personalità la tragedia della dittatura cilena, partendo da personaggi complessi e disturbati e quindi da storie personali che si intrecciano con la macrostoria: ricorderete il serial killer di Tony Manero, la delirante storia d’amore in Post Mortem, i preti isolati in El Club; e poi continuando a scavare nella relazione tra storia personale e storia collettiva nei biopic Jackie su Jacqueline Kennedy e Spencer su Lady Diana.
Pinochet nasce nel ‘700 in Francia come Claude Pinoche: e dopo la Rivoluzione Francese, si è dedicato alla guerra contro le rivoluzioni, finendo per arrivare in un oscuro paese sudamericano, il Cile, dove avrebbe conquistato il potere. Ma gli anni sono passati, la sua dittatura non esiste più, e il culmine (per lui) arriva quando è indagato per aver sottratto fondi statali. Pinochet finge di morire per scappare all’inevitabile decadenza, alla sua inevitabile fine come farsa e non come tragedia; vorrebbe morire, lui che è immortale. Solo che i suoi figli cercano le sue ricchezze nascoste; e compare anche una giovane suora che dovrebbe esorcizzarlo. E poi uno spettacolare colpo di scena che rilancia la vicenda…
Un film dalla regia perfetta, che rimanda al classico cinema gotico inglese e americano di fantasmi e mostri; ai primi piani della Giovanna D’Arco di Dreyer; al lucido caos di Peter Greenaway, e a tante altre sofisticate citazioni. In diversi hanno però criticato l’approccio di Larrain al tema Pinochet, rimarcandone una certa superficialità. Certamente El Conde è una commedia nera e horror sulla tragedia del fascismo sudamericano, ma Larrain non sottostima la storia del suo paese, lui che ha saputo ben rappresentarla in altri film. L’attacco a Pinochet è frontale perché è comico, satirico, e riduce ogni motivazione alla vera bassezza: il denaro e il potere.
Pinochet finge la morte non quando lo accusano di omicidi – di quello va fiero, è un generale – ma di essere un ladro: e questa accusa è infamante, perché lo copre di ridicolo, lui e tutta una famiglia che ossessivamente, con la scusa dell’antibolscevismo, cerca solo di rubare tutto quello che incontra, in uno spassoso contrappunto tra la serietà dei personaggi e le loro grottesche e meschine motivazioni. La rapacità, l’avidità, il succhiare sangue, istinti bassi e primordiali mascherati di nobili intenzioni: questo è stato Pinochet, questi sono i fascismi: tragedie mosse da persone mediocri che sperano di sembrare gloriose, la cui peggior paura cosa è sembrare ridicole.