È passato più di un mese dall’uscita di Blonde, il biopic (o presunto tale) su Marylin Monroe. Un po’ di tempo necessario per scriverne con il dovuto distacco. Blonde è diretto dal regista australiano Andrew Dominik, che ho molto apprezzato in passato per il western L’assassinio di Jesse James per mano del codardo Robert Ford (2007) e il crime-gangster Cogan – Killing Them Softly (2012), entrambi con Brad Pitt; e i due meravigliosi documentari su Nick Cave One More Time with Feeling (2016) e This Much I Know to Be True (2022).
Dominik è un raffinato regista che nei precedenti lavori sia di fiction che di documentario aveva mostrato un elegantissimo senso estetico sempre perfetto nel delineare visioni capaci di dipingere le sfumature psicologiche e i drammi personali dei personaggi veri o di finzione dei suoi film. Pensavo quindi che Blonde sarebbe stata una storia perfetta per le sue corde autoriali, ma il risultato finale è deludente.
E perché? Il film è certamente “bello” da vedere, ma di quella bellezza da copertina un po’ troppo perfetta per appassionare. Attori molto bravi, a partire da Ana de Armas nel ruolo di Norma Jean Baker/Marylin Monroe, che però sembra aver avuto come unico input quello di mostrare una disperazione piatta e monocorde; e con Adrien Brody e Bob Cannavale costretti a impersonare in modo unidimensionale le figure molto più complesse e sfaccettate di Arthur Miller e Joe Di Maggio.
Tutto il film risulta insulso come un lussuoso e patinato videoclip, e il motivo è semplice: non si tratta di un vero biopic sulla Monroe, ma dell’adattamento di un romanzo sulla Monroe scritto da Joyce Carol Oates. La quale ne ha rielaborato in maniera assolutamente libera la vita, cambiando molti eventi storici e quindi proponendo non la sua interpretazione del personaggio Marylin, ma un nuovo personaggio ispirato a Marylin. Questo equivoco di base, non spiegato, confonde lo spettatore e gli fa vedere una Marylin inautentica. C’è differenza tra il proporre una visione personale della storia della Monroe, e un film nel quale, per esempio, il figlio di Chaplin, suo amante, muore prima di lei – mentre in realtà fu il contrario. Questo tipo di gioco narrativo funziona solo se si coinvolge lo spettatore fin dall’inizio nella decostruzione della realtà (vedi la Sharon Tate che sopravvive in C’era una volta volta a Hollywood), non nascondendosi e portando avanti l’idea di una Marylin solo donna disperata, solo donna triste, solo donna vittima inerme e passiva di quello che le accadde.
Il problema è la totale passività di un personaggio Monroe che invece, insieme alle debolezze e ai traumi e abusi, fu anche una donna forte, dai pensieri e dalle azioni non banali; che sono poi quelle che hanno reso Marylin Monroe il Mito che merita tuttora di essere.