La prima uscita della stagione è La vita accanto, l’ultimo film di Marco Tullio Giordana, regista che ho molto amato in passato per opere come I cento passi (2000) sulla vita di Peppino Impastato, che vide l’esordio al cinema di Luigi Lo Cascio, e La meglio gioventù (2003), grande affresco della storia d’Italia tra gli anni ‘60 e 2000.
Giordana nella sua carriera ha sempre praticato un cinema politico e civile, dal delitto Pasolini alla strage di Piazza Fontana e all’immigrazione clandestina; quest’ultima sua opera si distacca, come vedremo, da questo impostazione. Siamo a Vicenza negli anni ‘80. Una ricca famiglia alto-borghese: il ginecologo Osvaldo, la moglie Maria ed Erminia, la sorella gemella di Osvaldo, affermata pianista, vivono nel grande palazzo di famiglia. Maria rimane incinta, ma quando partorisce la figlia Rebecca ha un problema: una grande macchia rossa le segna quasi metà del viso. È un angioma benigno, di quelli chiamati comunemente “voglia”: ma la madre, incapace di accettare la cosa, cade in una profonda depressione. Vorrebbe isolare la figlia dal resto del mondo per paura dei giudizi della gente; questa macchia diventa un’ossessione feroce, una colpa inespiabile, una mostruosa e antica vergogna trasmessa alla figlia Rebecca, nonostante la ragazzina mostri un grande talento musicale, supportato dalla zia Erminia, che di fatto fa da madre supplente…
La vita accanto, tratto dal romanzo di Mariapia Veladiano, nasce come progetto di Marco Bellocchio, il quale poi ha deciso di produrlo affidandone la regia a Marco Tullio Giordana. E in effetti la storia ha molto dei temi di Bellocchio, il disagio psichico dei suoi personaggi, le pulsioni di vita e di morte derivate dalla inevitabile disfunzionalità dell’istituzione famiglia in ogni sua forma e versione, l’alienazione indotta dalla società e dalla storia, come diventare esseri umani liberi e autocoscienti. La prima scena del film dà una direzione ben precisa, quella della antica tragedia greca: di notte, nei saloni del palazzo di famiglia, una donna in camicia da notte si aggira con un coltello, quasi un fantasma irreale che ricorda Medea o Clitennestra di fronte al loro destino necessario e impossibile da evitare. Il problema però è che questo tipo di storia non è nelle corde di Marco Tullio Giordana. Un’ambientazione claustrofobica, sempre nel chiuso del palazzo, e pochi eventi significativi a dare la svolta in una narrazione certamente delicata, ma scarna nelle azioni e troppo appiattita su una pazzia materna al limite dello stereotipato e del non realistico e su un presunto peccato originale che la povera figlia Rebecca deve soffrire a ogni costo.
Un film troppo forzato su emozioni che fanno fatica ad arrivare.