domenica
15 Giugno 2025
Rubrica Controcinema

“The Fabelmans” di Spielberg, dov’è l’orizzonte?

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The Fabelmans Spielberg

Grande capolavoro The Fabelmans, l’ultimo film di Steven Spielberg appena premiato ai Golden Globe, una autobiografia romanzata della giovinezza dello stesso Spielberg. Protagonista è il giovane Sam Fabelman (alter ego del regista) e la sua famiglia tipicamente ebraico-americana degli anni 50-60: il padre Burt ingegnere, uomo dal cuore d’oro ma dubbioso sulle ambizioni del figlio; la madre Mitzi ex-pianista e sofferente per un matrimonio in crisi; e tre sorelle minori. Quando Sam ha sei anni i genitori lo portano al cinema per la prima volta, ed è amore a prima visione. Il padre gli spiega tutto della tecnica del cinema (i 24 fotogrammi/secondo, la persistenza retinica), ma è la madre che gli schiude le emozioni dell’arte cinema. Il film è Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille, che lo terrorizza con la famosa sequenza dell’incidente tra treni. Da lì, il giovane Sam crescerà in una famiglia disfunzionale; girerà al liceo i suoi primi film amatoriali; si sposterà per l’America nei trasferimenti lavorativi del padre, patendo il bullismo, l’antisemitismo, la scoperta dell’amante della madre e il divorzio dei genitori. Alla fine, l’incontro col grande regista John Ford sarà la spinta decisiva per diventare regista, picture-maker.

Tutti gli eventi narrati nel film sono veri. Magari trasfigurati nel ricordo, ma reali. Il titolo, non casuale, permette a Spielberg una certa “distanza” con la sua vista. L’analogia tra i Fabelmans e i Tenenbaums richiama infatti tutta la parte disfunzionale della sua famiglia, mantenendo però una dolce serenità che mitiga i ricordi, pur se dolorosi. La storia è avvincente, il patimento non diventa mai tragedia e ogni evento ha sempre un retrogusto umoristico.

Qual è il senso di The Fabelmans? Se il cinema ha sempre rielaborato i generi della letteratura e le forme estetiche della pittura, ci sono però due “generi” quasi sempre tabù: l’autobiografia letteraria e l’autoritratto pittorico. Spielberg rompe questa conventio ad excludendum e realizza entrambi. Ogni autobiografia è filtrata dallo scrittore che scrive di se stesso; e ogni autoritratto è una visione che il pittore ha di se stesso. Se Sorrentino, con È stata la mano di Dio, scrive la sua vita in forma felliniana, Spielberg riflette sull’Arte, partendo dai grandi classici del cinema, come l’incontro finale con John Ford, qui interpretato da David Lynch, in una memorabile lezione di regia. “Cos’è l’Arte?” chiede Ford, mostrando due quadri al giovane Sam e urlandogli “Dov’è l’orizzonte?”

Nel primo l’orizzonte è in basso, nel secondo è in alto; e Ford sentenzia: «Quando l’orizzonte è in alto, è interessante. Quando è in basso, è interessante. Quando è a metà, è noioso e merda». Tanto che Spielberg ci scherza sopra “correggendo” l’ultima inquadratura del film: da un orizzonte a metà, a un orizzonte in basso, Arte che rende viva l’esistenza.

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