«Il mio Aristofane tra gli adolescenti di Pompei e le loro insoddisfazioni»

Marco Martinelli porta al teatro Alighieri, il 3 giugno, per Ravenna Festival, Gli uccelli, frutto di un nuovo progetto della “non-scuola”. «Dopo la pandemia all’inizio c’era rigidità, ma è bastato qualche incontro per far rinascere l’entusiasmo»

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A distanza di quattro anni, Marco Martinelli torna a lavorare con gli adolescenti per rinnovare la fortunata pratica teatral-pedagogica della non-scuola, marchio di fabbrica del Teatro delle Albe. Questa volta il drammaturgo e regista ravennate è stato a Pompei, per lavorare su Gli uccelli di Aristofane, accompagnato da una squadra di professionisti: gli assistenti alla regìa Gianni Vastarella e Valeria Pollice – a loro volta non-scuolini durante l’esperienza di Arrevuoto a Scampia, nel 2005 – Vincent Longuemare alle luci e Roberta Matera ai costumi. E per la prima volta la “messa in vita” di un classico da parte degli adolescenti “asinini” sarà accompagnata dalla musica dal vivo di Ambrogio Sparagna, grande cultore della musica popolare europea, e della sua orchestra. Lo spettacolo è in programma il 3 giugno al teatro Alighieri nell’ambito del Ravenna Festival.

Marco, com’è nato questo progetto dedicato agli Uccelli di Aristofane?
«Tutto è iniziato da un desiderio del nuovo direttore del parco archeologico di Pompei, il tedesco Gabriel Zuchtriegel: quello di abbattere il muro invisibile che divide il parco dalla città. Agli scavi di Pompei arrivano turisti da tutto il mondo, ma non c’è alcuna relazione fra questo unicum archeologico e la città. È come se non gli appartenesse. Zuchtriegel chiese a Ravenna Festival di lavorare con degli adolescenti su un’opera lirica, l’Orfeo di Monteverdi, e gli hanno fatto il mio nome. Quando mi ha raccontato il suo progetto, gli ho detto subito che non ero l’uomo giusto, e gli ho fatto vedere il mio film The Sky over Kibera. Se ti interessa questo tipo di direzione, sono qui. Mi ha richiamato poche ore dopo, entusiasta. È paritta così, pensando subito a Gli uccelli di Aristofane, con un percorso assieme agli adolescenti durato sei mesi, come sempre per la non-scuola».

Interessante questa differenza fra il parco e la città. Come hai trovato Pompei città?
«La città non posso dire di conoscerla, ma ho conosciuto i suoi adolescenti. Saranno quasi 70 in scena, principalmente da Pompei e Torre del Greco. Fanno parte di una realtà che non è più neanche periferia di Napoli. Si considerano diversi, hanno una loro autonomia. Pensa che alcuni di loro, quando sono entrati nel parco le prime volte per provare, si guardavano attorno spaesati, come potrebbero esserlo un ravennate o un milanese, con lo sguardo di chi dice: ma come? Avevo tutto questo a quattro passi da casa mia e non lo sapevo?».

Marco Martinelli Albe Pompei

Marco Martinelli nel Teatro Grande di Pompei

Come mai la scelta di questo testo?
«Abbiamo scelto Gli uccelli proprio perché i due protagonisti di questa commedia sono stanchi della loro città, Atene, e vogliono fuggire in un luogo dove vivere in pace, lontano dalla guerra – il testo viene scritto nel pieno della Guerra del Peloponneso. Così la prima cosa che abbiamo chiesto ai ragazzi è stata questa: qual è la vostra insoddisfazione? Lo spettacolo si apre con un coro di adolescenti che elencano i loro motivi di stanchezza. È incredibile, come sempre, come nulla sia più attuale del passato, e già lo scriveva Marc Bloch. La veste di Aristofane ce la mettiamo addosso e ci sta ancora terribilmente bene, per la sua universalità. Può suonare sia a Pompei, che a Ravenna, che a Nairobi».

Fuggire dalla realtà per rifugiarsi a Nubicuculìa, l’utopica città degli uccelli.
«Parte tutto da qui, da uno slancio utopico: è possibile volare, sognare una vita che non sia solo un affondare nei pantani che ci trovia- mo davanti? Il desiderio di Aristofane è quello di un vero ribelle. Il suo primo testo, scritto a 18 anni, è contro la guerra. Il primo verso che ci rimane è un verso da grande lirico: “Quante cose mi mordono il cuore”. Cos’è che vi morde il cuore a voi, ragazzi e ragazze? Si parte da lì, in tutte le parti del mondo. Ma la favola è molto complessa. Parte dall’utopia e finisce nella distopia. In questa città celeste, a metà strada fra terra e dei, il protagonista conquista il potere e reintroduce una logica umana fra gli uccelli. Durante la festa finale in suo onore si imbandisce la tavola con uccelletti arrosto. Quegli stessi uccelli a cui lui aveva promesso l’anarchia, la felicità, l’anti-potere, vengono uccisi per la colpa di rivoltarsi contro il governo “democratico”».

Un rovesciamento tipico in Aristofane. Bisogna sempre stare allerta, insomma.
«Esatto. E cercare sempre altre strade. La storia dell’Occidente ha dato ragione ad Aristofane. Questo testo forse lo capiamo meglio oggi che durante il nostro Rinascimento, noi che conosciamo quella terribile dinamica rivoluzione-reazione. Ma anche quella soppressione finale non cancella lo slancio iniziale e spinge a interrogarsi: dove abbiamo sbagliato? Cos’è che ci ha fatto diventare grigi come quelli che volevamo rovesciare? Dobbiamo trovare un altro modo di volare, per stare nella metafora. Quale? È una domanda aperta. Il teatro non ci dà soluzioni, ma rinverdisce le domande».

Dopo il tuo viaggio a Nairobi, nel 2018, era da quattro anni che non la- voravi con così tanti adolescenti. Hai notato dei cambiamenti nei ragazzi dopo questi anni di pandemia?
«Forse sì, all’inizio. Qualche rigidità c’è stata, e il sentore è che siano stati due anni molto faticosi per i ragazzi. Ma è bastato qualche incontro per far rinascere l’entusiasmo. Così come caschiamo in fretta, noi esseri umani possiamo anche risorgere in fretta».

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