Un nome importante per occasioni speciali, quando il latte è brulè (o imperiale)

Una preparazione semplice per un budino “diverso”, nato per valorizzare ciò che la dispensa offriva e diventato nel tempo un vero e proprio patrimonio familiare

Screenshot 2025 05 03 Alle 15.56.42C’è un profumo radicato nella memoria di noi romagnoli che riconosciamo all’istante: quello del latte brulè o, come veniva chiamato nei ricettari di casa, latte imperiale. Un nome importante per una preparazione semplice, nata per valorizzare ciò che la dispensa offriva. Nelle cucine contadine, dove il cibo era essenziale e la festa un’eccezione, questo budino rappresentava un gesto di cura, riservato alle occasioni speciali. Dal punto di vista tecnico, si tratta di un dolce al cucchiaio, appartenente alla famiglia dei budini cotti in forno a bagnomaria: una struttura compatta e cremosa, ottenuta grazie alla coagulazione lenta e delicata delle uova, con l’aroma inconfondibile del caramello.
Circa l’origine, le sue radici sono ben piantate nel territorio romagnolo, in particolare tra la provincia di Ravenna e quella di Forlì-Cesena. Si preparava in occasione delle festività domestiche: secondo le testimonianze raccolte dall’etnografo Bruno Montanari nel volume Tradizioni e cucina di Romagna (1979), il latte brulè era presente sulle tavole del giorno della fiera del bestiame, dei battesimi o per le domeniche delle cresime, ad indicare un uso celebrativo ma non quotidiano.
Il nome deriva probabilmente dal francese lait brûlé (latte bruciato), allusione alla presenza del caramello con cui viene rivestito lo stampo. Tuttavia, il piatto non ha derivazioni dirette dalla crème caramel francese: è piuttosto un esempio di convergenza tecnica tra cucine popolari europee.
Nel lessico domestico romagnolo, è conosciuto anche come “lat impirièl”, un’espressione che richiama alla memoria un tentativo di nobilitare un dolce sostanzialmente povero, basato su uova, latte e zucchero. Questi ingredienti, facilmente reperibili nelle economie familiari agricole, garantivano un apporto calorico significativo e una consistenza appagante, pur in assenza di materie prime costose come panna o burro.
Il gastronomo bolognese Pellegrino Artusi, nella sua raccolta La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), non cita direttamente il latte brulè, ma propone diverse versioni di budini a base di latte e uova, accomunati dalla stessa logica di fondo: pochi ingredienti, massima resa. È nei quaderni di cucina manoscritti delle massaie romagnole della metà del Novecento che si trovano invece tracce esplicite del latte brulè, con ricette molto simili tra loro ma differenziate negli aromi. Accanto alla versione più semplice, compaiono frequentemente varianti arricchite con amido di mais, scorza di limone o stecca di vaniglia, testimoniando una tradizione orale che, attraverso piccole differenze, diventava patrimonio familiare.
Come scriveva Giovanni Pascoli, profondamente legato alla cucina domestica e contadina della Romagna: “Il dolce non è un lusso, ma una gratitudine per ciò che abbiamo”.
E il latte brulè, in questo, è un emblema.

Oggi è quasi scomparso: un appello per rilanciarlo
Oggi il latte brulè è quasi scomparso dalle tavole. Troppo semplice per le vetrine, troppo casalingo per le carte dei ristoranti. Eppure, proprio per questo, andrebbe rilanciato come patrimonio gastronomico della Romagna: perché è capace di raccontare un territorio attraverso ciò che ha di più sincero. Non un’esibizione di tecnica, ma un racconto di famiglia, di campi, di cortili e stufe a legna. Riproporlo nei ristoranti, nei corsi di cucina, nelle sagre paesane, significherebbe restituire dignità a un dolce che non ha mai voluto stupire, ma solo confortare.

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LA RICETTA DEL LATTE BRULÈ – Per la cottura è rigoroso il bagnomaria in forno

Veniamo ora alla ricetta del latte brulè, consapevoli che, come sempre accade per i piatti della tradizione, esistono innumerevoli versioni, custodite e tramandate di famiglia in famiglia.
Ingredienti per 6 persone: 1 litro di latte intero (meglio se fresco di giornata); 6 uova di medie dimensioni (mia nonna ne usava 8 ma spesso erano piccoline); 200 grammi di zucchero semolato; scorza di mezzo limone non trattato; i semini di mezza bacca di vaniglia (spesso assente in molte versioni); zucchero per il caramello (circa 100 grammi).
Preparazione. Si inizia dal caramello: porre lo zucchero in un pentolino senza acqua, a fuoco dolce, fino a quando non prende il colore dell’ambra. Non si deve mescolare, solo guardare! Quando è pronto, si versa in uno stampo da budino, muovendolo per coprire fondo e pareti, e poi si lascia raffreddare.
Nel frattempo, si scalda il latte con la scorza di limone e la vaniglia. Non deve bollire, solo fumare. A parte, si sbattono le uova intere con lo zucchero ma non vanno montate (le nonne dicevano che …non devono fare la schiuma!).
Il latte aromatizzato si filtra e si versa, lentamente, nelle uova sbattute. Poi il tutto viene passato al colino e versato nello stampo caramellato.
Per la cottura è rigoroso il bagnomaria in forno, per circa 60 minuti a 160°C. Una volta raffreddato, si lascia riposare almeno una notte in frigorifero. Il giorno dopo si sforma con un colpo deciso e si serve così, nudo e glorioso, con il caramello che cola lento come miele.

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