Laurie Anderson, superartista multimediale che ha influenzato la cultura pop

Laurie Anderson porta in Italia la tournée legata a Let X = X, performance tra teatro d’avanguardia, narrazione e pop music che la vedrà sul palco assieme alla band Sexmob, formazione jazz guidata dal grande trombettista Steven Bernstein. L’unico appuntamento italiano dello show è fissato per il 7 giugno al Pala De Andrè, all’interno della prima vera e propria giornata del Ravenna Festival 2023.
Questo è un racconto sul “tema”, di Francesco Farabegoli.

Laurie Anderson

Nello spazio davanti al Pala De André di Ravenna c’è una scultura, piuttosto celebre e piuttosto difficile da ignorare al passaggio, chiamata Grande Ferro R. Fu realizzata da Alberto Burri nel 1990, su commissione di Raul Gardini. A leggere le informazioni online è una celebrazione teatrale che si riferisce alla città che la ospita in più di un senso: evocare le forme intrecciate degli alberi nella pineta di Classe e la carena rovesciata di una nave, ad indicare l’antica vocazione navale della città. Uno ci passa accanto in auto, magari per andare a prendere il ponte mobile, e ci pensa il giusto. È uno dei tanti elementi del paesaggio, se s’intende per paesaggio una serie di elementi casuali, la cui disposizione specifica nello spazio visivo per un certo periodo di tempo finisce per diventare un lessico della geografia dei posti, non diverso da quello che ad esempio ci mantiene freddi e operativi anche quando dietro il cavalcavia della stazione appare il Mausoleo di Teodorico, ad esempio.

Un certo tipo di arte è destinato a sconvolgere le vite, un certo altro tipo è destinato ad entrare nel nostro quotidiano e diventare un vestito, o un punto di riferimento su una cartina, o – che ne so – una canzoncina alla radio. Nella primavera del 2023 c’è un bel parlare del mescolarsi tra arte e cultura pop, per via di una campagna pubblicitaria governativa chiamata Open to Meraviglia, in cui la Venere di Botticelli viene digitalizzata e resa “influencer” con la missione di far conoscere al mondo la bellezza del nostro paese. Un’idea che ha diviso il pubblico e su cui molti hanno avuto parole piuttosto dure. È un dibattito vecchio quanto l’arte, forse peggiorato nei toni, assolutamente al centro del discorso della storia di cui vorremmo dare conto in questo pezzo. Una storia che, paradossalmente, non si può non fare partire raccontando un’altra campagna pubblicitaria, realizzata per conto del governo italiano dalla stessa agenzia (Armando Testa) e andata in onda più di trent’anni fa, precisamente nel 1989. Si tratta di una serie di spot televisivi corti, mezzo minuto ciascuno, che oggi forse sarebbe (grazie a dio, potrei aggiungere) impensabile mandare in onda, e sono inseriti all’interno di una campagna che cerca di contrastare il dilagare del virus HIV alla fine degli anni ottanta. Niente siringhe condivise, ragazzi. Niente sesso promiscuo, ragazzi. Scene di degrado urbano, filmate in bianco e nero. Le persone sieropositive sono circondate da un alone violetto che si propaga addosso a tutti quelli che condividono con loro siringhe e camere da letto.

Fuori campo una voce molto impostata declama nel dettaglio i modi in cui si viene contagiati dal virus e conclude con uno slogan celeberrimo: «AIDS. Se lo conosci lo eviti. Se lo conosci non ti uccide». È la voce familiare di Pino Locchi, uno dei più grandi doppiatori italiani, quello che ha fatto parlare in italiano Sean Connery. E forse con un accompagnamento musicale diverso li avremmo visti come vediamo la maggior parte degli spot governativi di quegli anni, esempi di ridicolo involontario a vario grado di fremdschämen. Ma l’accompagnamento musicale è quello giusto, perfetto per creare un clima di tensione irrespirabile, e quegli spot sono stampati ancora oggi nella memoria dei ragazzi di quell’epoca.

È un bel paradosso. Perché la musica di quello spot non è una partitura horror creata ad hoc da uno specialista italiano del genere, un Riz Ortolani o un Claudio Simonetti. Tutt’altro: è una canzone pop che ha mancato per un soffio la vetta della top ten inglese dei singoli.

E qui bisogna fare un salto indietro di otto anni: al momento in cui, ed è il 1981, un dj inglese di nome John Peel suona per la prima volta un 7” arrivatogli da New York. La canzone è scritta da un’artista che si chiama Laurie Anderson. È arrivata nella grande mela una quindicina d’anni prima, nemmeno ventenne. Aveva studiato all’Art Institute di Chicago, nel nativo Illinois; gli studi d’arte l’avevano portata in California, e poi a New York, dove aveva completato gli studi con tutti gli onori, e aveva iniziato ad esibirsi.

Performance art, nello specifico, ma sempre legata in qualche modo all’esperienza musicale. Aveva guadagnato consensi nel mondo dell’arte per tutti gli anni Settanta, rimanendo pressoché sconosciuta come musicista. Ma una sera si era trovata ad ascoltare un’aria tratta da un’opera di Jules Massenet e cantata da Charles Holland, e qualche pezzo aveva iniziato a muoversi nella sua testa. Aveva preso un testo dell’opera e l’aveva usato come ossatura per una partitura organizzata su un loop vocale ossessivo, una sola sillaba ripetuta. «ha-ha-ha-ha-haha-ha-ha-ha». Il testo era filtrato da un vocoder e pescava parole a destra e a manca. Una bizzarra, e fascinosissima, ode/critica alla tecnologia, intitolata O Superman come le prime due parole del testo. Certo non una canzone pop, e del resto era destinata ad uscire su un 7” in edizione limitata, per la One Ten di B. George. E non aveva fatto alcun clamore negli Stati Uniti, come si compete ad una canzone di quella lunghezza e di quella difficoltà.

Laurie Anderson (2)Ma John Peel era un personaggio a modo suo. Era un inglese del Cheshire che aveva girato gli Stati Uniti in lungo e in largo, aveva fatto ritorno a casa più o meno quando Laurie Anderson si era trasferita a New York, e per qualche motivo aveva iniziato a lavorare per qualche radio pirata. Era stato pescato da BBC per lavorare in una stazione musicale che stava aprendo, BBC Radio 1.

Al suo interno aveva cominciato a crescere ed era diventato uno dei dj radiofonici più importanti in tutto il Regno Unito. Aveva costruito la sua fama sopra le sue selezioni, fatte di scelte controintuitive e molto generose nei confronti di artisti semisconosciuti, a cui – in molti casi – riuscì a garantire una carriera. Quelle selezioni riflettevano la sua devozione alla causa della musica, al tempo che dedicava ogni giorno ad ascoltare ogni disco su cui riusciva a mettere le mani. Così, nel 1982, John Peel è uno dei nomi di punta di BBC Radio. Ha già rifiutato offerte da network privati che lo coprirebbero di soldi, per conservare a sua indipendenza come programmatore alla radio pubblica. Ed è un pomeriggio di quell’anno che suona, per la prima volta, il singolo O Superman che gli è stato spedito da One Ten. La quale, qualche settimana dopo, inizia a ricevere strane telefonate dall’altra parte dell’oceano: le catene di distribuzione chiedono copie di O Superman a piene mani. John Peel si è innamorato perdutamente della canzone e la sta usando come spina dorsale delle sue programmazioni di quel periodo. E presto la voce arriva all’orecchio della discografia newyorkese: in città c’è un’artista senza contratto discografico che in Inghilterra sta vendendo come il pane. Warner Bros si muove in fretta, firma un contratto con Laurie Anderson e la mette in condizione di registrare il suo primo disco solista. Che conterrà O Superman, la quale nel frattempo sta prendendosi il mercato inglese: non tutti amano quel pezzo lunghissimo e inquietante, ma quelli che lo amano lo amano alla follia. Riuscirà a scalare la classifica dei singoli fino al secondo posto e verrà inserita nelle dieci canzoni dell’anno secondo NME. E sarà un buon biglietto da visita per garantire un bel po’ di copie vendute a un disco di musica sperimentale come Big Science, che ad oggi rimane ancora uno degli album più celebri e celebrati di Anderson (e che contiene, tra l’altro, la straordinaria Let X=X, che sarà l’ossatura della sua performance a Ravenna, il 7 giugno, al Pala De André), un disco il cui suono è destinato a permeare l’immaginario degli anni Ottanta fin dentro ai pertugi più impensabili, compresi i corridoi di un’agenzia pubblicitaria che deve musicare uno spot governativo e generare la massima tensione possibile.

O SupermanLaurie Anderson ha un cursus honorum straordinario riservato a pochissimi artisti contemporanei. Volendo tentare di riassumerlo finiremmo dentro un elenco sterminato di premi, residenze e riconoscimenti (spesso quasi assurde, tipo un ruolo da resident artist alla NASA nei primi anni Duemila) che porterebbe via tempo e rischierebbe di ridurre a un semplice curriculum un’artista che ci ha dato una possibilità di guardare il presente con un occhio spesso critico, a volte molto confuso e quasi sempre meritevole d’essere aperto. Guardando all’ultimo trentennio di attività, nel quale tra l’altro ha legato il suo nome a quello di un dio del rock’n’roll di cui è rimasta compagna di vita fino all’ultimo giorno, è quasi impossibile pensare che ci sia stato un periodo nel quale Laurie Anderson è stata non proprio una popstar ma qualcosa che in qualche modo ci andava molto vicino. Ma l’arte ha un modo buffo di invadere il nostro quotidiano e manifestarsi in una serie infinita di paradossi.

Big Science 1982Qualche giorno fa ero fuori da un supermercato e una coppia di cinquantenni accanto a me guardava un cartello con scritto “Laurie Anderson”, in una colonna che sponsorizzava alcuni eventi del Ravenna Festival. Lui stava dicendo che il nome Laurie Anderson gli diceva qualcosa ma non ricordava di preciso chi fosse. Lei aveva la stessa impressione. Ascoltavo la conversazione e pensavo tra me e me che, al netto di tutto il cursus honorum di cui sopra, se avessi dovuto spiegar loro chi è Laurie Anderson, in Italia il modo più efficace per descriverla in breve è ancora «quella che ha inciso la canzone dell’AIDS». E questa è la storia del perché.

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