Giovanna Marini al festival Polis: «Solo nel canto popolare sopravvive la poesia»

Con cinque ballate la musicista è, assieme al grande attore Umberto Orsini, protagonista de La ballata del carcere di Reading, per la regia di Elio De Capitani, in scena a Ravenna

UMBERTO ORSINI GIOVANNA MARINI LA BALLATA DEL CARCERE DI READING 6293

Umberto Orsini e Giovanna Marini

Giovanna Marini è una delle figure più importanti nello studio, nella ricerca e nell’esecuzione della tradizione musicale popolare italiana. Sarà protagonista giovedì 17 maggio al teatro Alighieri di Ravenna insieme a un altro maestro come Umberto Orsini: diretti da Elio De Capitani, inaugurano il festival Polis con lo spettacolo La ballata del carcere di Reading di Oscar Wilde. Secondo il regista lo spettacolo si presta a una messinscena in cui l’attrazione fisica si sublima in canto e il canto sublima la sofferenza in bellezza.

Giovanna Marini ha composto cinque ballate per lo spettacolo, componendo una musica che va dalla ballata irlandese fino a Schubert, passando per i Beatles.

Giovanna Marini, come è nato questo spettacolo?
«È nato tanti anni fa. Eravamo nel camerino di Pippo Delbono, che faceva Urlo. Lì Orsini recitava un pezzo de Il carcere di Reading di Oscar Wilde. Mi piacque molto, era un manifesto contro la pena di morte. Decisi di metterlo in musica, ma non ci riuscii. Pensai allora di metterlo in musica in inglese, ed era molto più facile. Leggendo ad alta voce le parole suggerivano una musica e scrissi otto ballate. Orsini si è entusiasmato, poi è arrivato De Capitani e così è nato lo spettacolo».
Il rapporto trea poesia e musica è antichissimo, nato assieme alla poesia stessa, e confermato con il Nobel a Bob Dylan…
«Tutta la poesia era cantata. Anche Dante, quando nella Vita nova parla di “tre parti” o “quattro parti” sta parlando di metrica musicale. Poi si è persa questa abitudine, tranne che tra i cantori popolari che sono l’ultima forma sopravvissuta di poesia cantata».
Lei ha avuto modo di suonare con Bob Dylan quando era in America negli anni ‘60, che ricordo ha di quegli anni?
«Sembrerò antipatica, ma non ho un buon ricordo. Noi cantavamo nel Club 47 a Boston. Io andavo spesso lì a cantare e ascoltare grandissimi musicisti. Ricordo un nero a cui mancavano due corde della chitarra che mi impressionò, ma ho dimenticato come si chiamava. Scoprii un mondo. Poi ogni tanto arrivava questo ragazzetto coi capelli ricci e si piazzava sul palco e non smetteva più di suonare, di parlare, di fare lunghe melopee insostenibili. Era Bob Dylan e a noi stava cordialmente antipatico, perché quando arrivava lui non riusciva più a suonare nessun altro. Cercavamo di metterlo alla fine della scaletta, ma quel ricciolino si infilava sempre sul palco a tradimento e non c’era modo di farlo scendere. In quegli anni lo chiamavano Zimmy. Poi ebbe il grande successo di Blowin in the wind e cominciammo ad apprezzarlo anche noi».
Quando gli hanno assegnato il Nobel come l’ha presa?
«Io ci vorrei parlare con questi svedesi che danno i Nobel. Già quando lo diedero a Dario Fo non la presi bene. C’era il grande Mario Luzi che lo aspettava da anni, e che non aveva una lira, e quelli lo danno a Fo. Stavolta lo danno a Dylan. Forse non era tanto adatto. Le canzoni di Dylan sono molto belle quando le traduce De Gregori».
Quest’anno ricorre l’anniversario del ’68. Dello spirito di quegli anni cosa rimane?
«Niente. Rimangono però gli effetti pratici di quelle proteste, come i rapporti tra professori e allievi, tra mariti e mogli, tra genitori e figli. È stato un rovesciamento totale, ha avuto molto di positivo, e qualche eccesso manicheista. Il mio editore mi ha chiesto di scrivere una canzone sul ’68 e mi è venuto in mente uno sgombero delle case occupate. Quel giorno ci riversammo tutti in piazza a protestare con gli sfrattati al Campidoglio. Eravamo tanti, accendemmo un fuoco, si cantava, c’era una bella atmosfera. Nel 2017 è successo uno sfratto identico. Venivano sgomberati dei baraccati. Li hanno inzuppati d’acqua con gli idranti, spintonati. Beh, non c’era nessuno a sostenerli. Un paio di studenti di un centro sociale e basta. Mi ha fatto molta impressione. Ho capito che non c’era più nessuno. Quando ha chiuso il Pci è finito un periodo di impegno. Subito dopo Papa Wojtyla ha chiuso gli oratori. Quel tipo di aggregazione civile è stato spezzato dall’alto. Oggi il massimo del sostegno che ci si da tra le persone è mandarsi una faccetta triste con il cellulare… Se la mandano a me io li mando a quel paese».
Dei musicisti di oggi chi le piace? Secondo lei c’è ancora un impegno politico dei musicisti?
«Mi piace solo Francesco De Gregori e il lamento dei contadini che ancora cantano nelle processioni».
Secondo alcune testimonianze quando era giovane si difese da un’aggressione fascista menando con la sua chitarra. È vero?
«Sì, è successo davvero. Ma poi mi sono ricordata che la chitarra era costata 300 mila lire e ho pensato che non valeva la pena romperla in testa a un fascista, allora mi sono fermata».

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