venerdì
27 Giugno 2025
Rubrica L'opinione

Cold case Minguzzi: ci diranno perché il processo è in ritardo di 34 anni?

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Pier Paolo Minguzzi oggi avrebbe 55 anni. Invece la sua vita si è fermata quando ne aveva 21. Nel 1987 il più giovane dei tre figli di una facoltosa famiglia di imprenditori di Alfonsine è stato rapito mentre rincasava in auto dopo aver salutato la fidanzata, poi ucciso e gettato in un canale nelle valli di Comacchio. Un sequestro a scopo estorsivo finito male: per dieci giorni i rapitori hanno telefonato ai parenti chiedendo un riscatto di 300 milioni di lire, senza mai dare prove che Pier Paolo fosse vivo. Il processo per dare un nome a chi lo ammazzò è cominciato solo il mese scorso. Tre alla sbarra: due ex carabinieri alla stazione di Alfonsine all’epoca dei fatti e un terzo uomo che faceva l’idraulico in paese. Il caso era stato archiviato negli anni Novanta ed è stato riaperto nel 2018 (in provincia ci sono altri 15 omicidi irrisolti negli ultimi 50 anni).

È previsto un calendario di udienze almeno fino a Natale ma le prime quattro – qui trovate i resoconti – sono state sufficienti per alimentare ulteriormente quel senso di incredulità già abbastanza supportato dalla lettura delle cronache recenti. Come è possibile che ci siano voluti 34 anni? E non è una domanda retorica. I tre odierni imputati hanno già scontato condanne tra 22 e 25 anni di carcere per un altro omicidio connesso a una tentata estorsione. Vennero arrestati due mesi dopo la morte di Minguzzi: avevano minacciato un’altra famiglia di Alfonsine chiedendo 300 milioni di lire per non uccidere il figlio. Alla consegna del denaro, appuntamento-trappola orchestrato dagli investigatori, nacque una sparatoria in cui morì un 23enne carabiniere che seguiva le indagini. Pare che Sherlock Holmes fosse impegnato e a nessuno venne in mente di indagare quei tre anche per il caso Minguzzi. Due brutte storie da cui l’Arma usciva a pezzi (e un anno dopo ci sarebbe stata la strage dei cinque carabinieri nella caserma di Bagnara).

I familiari della vittima – l’anziana madre e i due fratelli sono puntualmente in aula – meritano di sapere non solo chi uccise Pier Paolo. Ma anche – nel caso vengano riconosciuti colpevoli gli accusati – se qualcuno ostacolò la ricerca della verità, se c’era qualcun altro che sapeva e non disse nulla. O anche semplicemente se qualcuno sbagliò valutazioni in buona fede. Sarà interessante seguire gli interrogatori della procura per capire se le nuove indagini hanno accertato nuovi elementi o se c’era già tutto per chiedere un rinvio a giudizio. Quello che era il comandante dei due militari imputati, nella sua deposizione, ha affermato che informò il pm titolare del fascicolo dei suoi sospetti su uno dei sottoposti. Magari chiedere a quel magistrato perché non indagò potrebbe interessare alle difese. Un altro carabiniere ha raccontato di come un superiore lo invitò a non insistere con le indagini. Sarebbe un peccato se andasse persa la possibilità di arrivare a una verità piena.

Gli inizi del dibattimento non sono stati incoraggianti. L’ex comandante della compagnia carabinieri di Ravenna non si è presentato all’udienza. Problemi cardiaci non gli permettono di affrontare il viaggio da Salerno. La corte ha disposto una visita fiscale: il medico ha confermato e si è deciso di spostare la deposizione quando le temperature saranno più miti. Stessa cosa chiesta da un altro teste. Il commento affilato del presidente della corte è stato: «Già due che hanno caldo. Vedremo di finire il processo prima della prossima estate».

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