Cosa ci avrà voluto dire la tempesta?

Matteo CavezzaliLa tempesta di ghiaccio del 28 giugno ha avuto un forte impatto sui ravennati. Non solo per i chicchi di grandine grossa come noci californiane e per il vento, non solo per i danni, ma soprattutto per quello che abbiamo visto. La città per alcune ore sembrava il set di un film apocalittico. Alberi divelti, auto distrutte, vetrate in frantumi, strade chiuse e persone che si aggiravano con aria smarrita. Sembrava un brutto sogno. La nostra solidarietà va a tutti quelli che hanno subìto danni.

Proviamo però a vedere la cosa sotto un altro aspetto. Secondo le teorie psicoanalitiche del cileno Alejandro Jodorowsky dovremmo analizzare la realtà con le stesse modalità del sogno, come se il subconscio di un territorio si palesasse nel quotidiano per parlare con le persone che lo abitano. Queste teorie, che hanno più a che fare con la poesia che con la scienza, sono affascinanti dal punto di vista simbolico.

Cosa avrebbe voluto dire Ravenna ai suoi cittadini con questa tempesta? «Sveglia! Vi siete abituati a vivere in una cappa immobile, ma può accadere tutto, anche di trovarsi in piena estate a camminare in mezzo al ghiaccio!». I cartelli stradali erano stati spezzati, piegati, cancellati dalla furia del vento, le strade deviate da tronchi. Come a dire: «Smettete di affidarvi a indicazioni scritte da altri, ritrovate il piacere di perdervi, per poi ritrovarvi».

Centinaia di pini rovesciati, con le radici all’aria. Il pino è il simbolo della nostra tradizione, tanto da apparire nell’emblema cittadino in mezzo ai due leoni. Ma non è una pianta autoctona. Non c’era in queste zone. Fu piantato dai romani che avevano bisogno di legna per le loro navi. «Smettete di pensare solo alla tradizione», ci dice il subconscio cittadino. «Quello che considerate tradizione è stato nuovo e poi è diventato tradizione. Se state sempre fermi alle vostre sicurezze non uscirete mai da questa cappa stantia di calore». Cosa sarebbe successo se a quell’esule toscano che diceva di essere un poeta fossero state chiuse le porte? O se gli fosse stato chiesto di scrivere un poema sui mosaici per onorare la tradizione ravennate?  Avremmo forse avuto una Divina Commedia? E se agli artigiani che fecero i primi mosaici avessero chiesto di non usare quelle tessere, troppo moderne, e rifarsi invece a tradizioni più antiche di pittura rupestre avremmo avuto le nostre San Vitale e Sant’Apollinare? E se ai romani avessero chiesto di fare le navi senza legna, di sabbia magari, avremmo avuto la pineta? «Ravennati non abbiate paura del nuovo, del diverso, dell’inaspettato, una doccia gelata in piena estate vi aiuti a svegliarvi dal torpore!».

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