Ma davvero il panorama e la memoria di un luogo non meritano nemmeno un vero confronto pubblico?

Foto Alessandro Randi

Foto di Alessandro Randi

Sono diversi gli argomenti tirati in ballo da chi è a favore senza se e senza ma dell’abbattimento delle Torri Hamon che suggeriscono qualche riflessione.

Il primo è quello per cui “però nessuno si lamentò quando tirarono giù le altre”. Come se allora i cittadini adulti fossero gli stessi di oggi. Come se mezzo secolo fosse passato invano.

La seconda è: “Adesso ne parlano, tra un po’ troveranno qualcos’altro”. Come se, a meno che non si passi il resto della propria vita a parlare di un tema, tanto vale tacerne.

E invece è adesso che bisogna parlarne perché è adesso che le stanno abbattendo, dopo sarà tardi, appunto. E devono parlarne i cittadini di Ravenna di oggi, che magari sono i bambini degli anni Settanta, i figli degli operai dell’ex Sarom. Perché l’impronta industriale di una città come la nostra non è patrimonio esclusivo di chi entrava in fabbrica e nemmeno di chi possiede quelle fabbriche.

Il petrolchimico ha fatto la storia e in parte la fortuna di Ravenna trasformandola dal punto di vista economico e sociale, innanzitutto come attrattore di tanti lavoratori che con le loro famiglie hanno incrementato, svecchiato, mescolato la popolazione residente.

Perché siamo così orgogliosi del nostro passato di antica capitale, di esarcato, di città che accolse Dante, di culla della cooperazione e non di ciò che siamo stati nel secondo Dopoguerra? Quelle torri così distinguibili lungo una strada percorsa praticamente da tutti sono un segno che lega Ravenna alle altre realtà industriali, una sorta di filo rosso sulla mappa di un mondo che stava diventando globale, e allo stesso tempo qualcosa che dice tanto di questo territorio.

Tralasciamo le questioni estetiche, per quanto le voci più autorevoli in materia sostengano che siano edifici di enorme pregio per la forma geometrica unica, un’opera che ha unito ingegneria a estetica. Di certo moltissimi artisti le hanno trovate di ispirazione e forse, con un po’ di umiltà generale, tanto potrebbe bastare per non affidarsi solo al proprio gusto personale. Cosa è bello, è arte o monumento è un dibattito in perenne evoluzione. Quante volte in passato sono stati rasi al suolo edifici per far spazio a ciò che allora era il nuovo, edifici che oggi invece avremmo magari valorizzato.

Oggi stiamo abbattendo due colossi senza nemmeno immaginare di poterli salvare perché sono ammalorati e che lasceranno spazio ad (altri) pannelli solari in un terreno quasi sterminato e di fatto non utilizzabile per altro. Davvero ne vale la pena? Peccato non ci sia in realtà nemmeno il tempo di discuterne a fondo, dato che, forse proprio per limitare il più possibile polemiche, la notizia è stata pubblicizzata solo quando le gru erano in arrivo.

Dal Comune hanno innanzitutto detto che peccato sì, ma è una faccenda tra privati, anche se definire semplici privati Eni e Autorità portuale appare perlomento riduttivo. E che siccome in ogni caso non si sarebbero potute recuperarle per altri usi perché si trovano in un’area che nemmeno la centrale di Homer Simpson, meglio concentrarsi su altro, tipo il Sigarone (aspettiamo con ansia novità a questo punto).

Opposizione silente, sovrintendenza non pervenuta.

Ma davvero il panorama e la memoria di un luogo non meritano nemmeno un vero confronto pubblico?

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