Tre ore di requisitoria: «L’8 aprile 2014 ha ucciso la sua paziente. In criminologia sarebbe chiamata serial killer dominante». Le parti civili chiedono 1,8 milioni. Sentenza attesa per l’11 marzo
Il sillogismo della procura sembrerebbe incontrare un ostacolo nelle analisi fatte sui dispositivi medici che erano collegati al corpo della paziente e rimossi, come da prassi, solo dopo la morte. Nelle bottiglie della flebo non c’è potassio ma c’è invece in concentrazioni elevatissime nel deflussore (il tubo) e di nuovo non c’è nell’ago cannula (la parte inserita nella vena) dove vengono rilevate tracce ematiche con Dna maschile. Allora quello non è il deflussore della Calderoni, è la linea difensiva. La procura la vede diversamente: il deflussore è della Calderoni ma Poggiali prima di gettare tutto nell’apposito contenitore per rifiuti speciali ha sostituito l’ago cannula con quello di un altro paziente per depistare le indagini. A supporto di questa tesi due elementi: quel giorno non si trovano altri deflussori nel contenitore dei rifiuti e se davvero fosse di un altro vorrebbe dire che quella concentrazione di potassio avrebbe dovuto uccidere un altro paziente ma nessun altro è morto quel giorno.
Scorza aggiunge poi un nuovo elemento finora mai esposto in fase dibattimentale, un’altra sostituzione che Poggiali avrebbe operato per proteggersi. Verso le 9.05 il medico di turno fece un prelievo di sangue affidando la siringa a Poggiali per la richiesta di una Ega (emogas analisi) visto l’aggravarsi improvviso del quadro clinico. La richiesta telematica al laboratorio di analisi dell’ospedale venne formalmente presentata solo alle 9.35. Cosa è successo in quella mezz’ora? «Poggiali è furba, scafata e competente. I trenta minuti le sono serviti per sostituire la provetta di sangue: il referto di laboratorio infatti ha valori di potassio nella norma perché il sangue inviato in laboratorio non è quello di Calderoni».
Le carte giocate dalla procura per costruire le fondamenta su cui innestare il castello accusatorio relativo all’unico caso di omicidio per cui è alla sbarra sono due: la scia di novanta morti sospette che resta alle spalle di Poggiali e le due celeberrime foto che la vedono in posa con gesti di scherno e di gioia accanto a un altro cadavere a gennaio del 2014, immortalate da una collega e poi spedite via Whatsapp alla 43enne che li ha accolti scrivendo “Brrr… la vita, la morte”.
In tre ore di conclusioni Scorza dipinge nuovamente il profilo dell’ex infermiera già emerso anche in precedenti passaggi giudiziari: la donna, residente a Giovecca di Lugo e in carcere a Forlì da un anno e mezzo, «in criminologia verrebbe definita un serial killer dominante che uccidendo si sente potente». Qui starebbe il movente per l’accusa: non la pietas per alleviare la sofferenza dei malati – «Non le frega niente delle loro sofferenze, i pazienti li considerà una sua cosa propria per i suoi impulsi più o meno sadici» – ma il compiacimento di dare la morte. Quella della Calderoni sarebbe arrivata per sfida: l’8 aprile Poggiali è in turno dalle 7 alle 14 perché si è deciso di non farle fare più le notti proprio per i sospetti a suo carico che circolavano da tempo in corsia. E secondo Scorza l’imputata voleva dimostrare di poter comunque uccidere. Il pm va in prestito dalle riflessioni sulla perversione elaborate dallo psicoanalista francese Jacques Lacan: «Si riassume tutto in due parole: “Perché no?”. Il “Perché no?” assertivo del perverso, di chi pensa di poter fare tutto». E sul maxi schermo in aula tornano ancora una volta le due foto: «Eliminano ogni equivoco sul movente. Nulla rende meglio la personalità di Poggiali. Qui siamo di fronte a qualcosa che assomiglia all’esibizione dei cadaveri come trofei in tempi di guerra».