«Poggiali esibiva la sua follia morale» Il pm chiede l’ergastolo per l’infermiera 

Tre ore di requisitoria: «L’8 aprile 2014 ha ucciso la sua paziente. In criminologia sarebbe chiamata serial killer dominante». Le parti civili chiedono 1,8 milioni. Sentenza attesa per l’11 marzo

Solo l’ipotesi da sceneggiatura di film di fantascienza con l’azione di un fantasma killer potrebbe scagionare Daniela Poggiali: il pubblico ministero si spinge fino a questa immagine nella requisitoria, tanta è la convinzione della colpevolezza della 43enne ex infermiera dell’ospedale di Lugo. Il capo di imputazione è omicidio pluriaggravato di una paziente, la 78enne Rosa Calderoni di Russi l’8 aprile 2014. L’arma del delitto una somministrazione massiccia di cloruro di potassio. Premeditazione, motivi abietti e il ricorso al mezzo venefico sono le tre aggravanti riscontrate dall’accusa che non possono essere intaccate dall’attenuante dell’incensuratezza: la richiesta è per il massimo della pena, ergastolo (con isolamento diurno per un anno e mezzo). «Perché nessuno di noi può sentirsi al sicuro»: sono le parole pronunciate oggi, 26 febbraio, dal sostituto procuratore Angela Scorza davanti alla corte d’Assise di Ravenna. E sul capo dell’imputata, in aula così come fatto finora in ogni udienza del processo, piombano anche le richieste della quattro parti civili (Ausl, collegio infermieri e i due figli della vittima): 1,8 milioni di euro in tutto. Venerdì prossimo l’arringa difensiva dell’avvocato Stefano Dalla Valle e per l’11 marzo è attesa la sentenza.

Il pm ricostruisce minuziosamente le tappe della degenza di Calderoni. L’anziana arrivò al pronto soccorso di Lugo la mattina del 7 aprile 2014 dopo un malore in una casa di riposo a Bagnacavallo e nel tardo pomeriggio fu ricoverata nel reparto di Medicina, quello della Poggiali, già in via di miglioramento o comunque non più in condizioni critiche. Alle 9.40 del mattino successivo la morte: l’autopsia esclude cause naturali e rileva una concentrazione eccessiva di potassio negli occhi (l’umor vitreo è l’unico punto in cui è possibile la rilevazione in maniera attendibile dopo la morte perché lì la sostanza rimane e non si dissolve come invece accade nel sangue). Secondo la procura Calderoni è stata uccisa da Poggiali con una dose concentrata di potassio somministrata tra le 8.15 e le 8.30 facendo ricorso al deflussore collegato al braccio per la flebo. In buona sostanza la convinzione dell’accusa è basata su una struttura logica piuttosto semplice: fino alle 8.15 la paziente stava bene ed era in compagnia della figlia poi ha trascorso un quarto d’ora sola con l’infermiera per la terapia del mattino (che doveva consistere in una semplice sostituzione della flebo ma Poggiali fece comunque uscire la parente dalla stanza e chiuse la porta) e in seguito la figlia la trovò non più lucida fino al coma delle 8.55. Insomma: Calderoni non è morta per cause naturali, Poggiali è stata l’unica ad averla trattata allora Poggiali è l’assassina.

Il sillogismo della procura sembrerebbe incontrare un ostacolo nelle analisi fatte sui dispositivi medici che erano collegati al corpo della paziente e rimossi, come da prassi, solo dopo la morte. Nelle bottiglie della flebo non c’è potassio ma c’è invece in concentrazioni elevatissime nel deflussore (il tubo) e di nuovo non c’è nell’ago cannula (la parte inserita nella vena) dove vengono rilevate tracce ematiche con Dna maschile. Allora quello non è il deflussore della Calderoni, è la linea difensiva. La procura la vede diversamente: il deflussore è della Calderoni ma Poggiali prima di gettare tutto nell’apposito contenitore per rifiuti speciali ha sostituito l’ago cannula con quello di un altro paziente per depistare le indagini. A supporto di questa tesi due elementi: quel giorno non si trovano altri deflussori nel contenitore dei rifiuti e se davvero fosse di un altro vorrebbe dire che quella concentrazione di potassio avrebbe dovuto uccidere un altro paziente ma nessun altro è morto quel giorno.

Scorza aggiunge poi un nuovo elemento finora mai esposto in fase dibattimentale, un’altra sostituzione che Poggiali avrebbe operato per proteggersi. Verso le 9.05 il medico di turno fece un prelievo di sangue affidando la siringa a Poggiali per la richiesta di una Ega (emogas analisi) visto l’aggravarsi improvviso del quadro clinico. La richiesta telematica al laboratorio di analisi dell’ospedale venne formalmente presentata solo alle 9.35. Cosa è successo in quella mezz’ora? «Poggiali è furba, scafata e competente. I trenta minuti le sono serviti per sostituire la provetta di sangue: il referto di laboratorio infatti ha valori di potassio nella norma perché il sangue inviato in laboratorio non è quello di Calderoni».

Le carte giocate dalla procura per costruire le fondamenta su cui innestare il castello accusatorio relativo all’unico caso di omicidio per cui è alla sbarra sono due: la scia di novanta morti sospette che resta alle spalle di Poggiali e le due celeberrime foto che la vedono in posa con gesti di scherno e di gioia accanto a un altro cadavere a gennaio del 2014, immortalate da una collega e poi spedite via Whatsapp alla 43enne che li ha accolti scrivendo “Brrr… la vita, la morte”.

Non sarà dimostrabile una responsabilità penale ma il sostituto procuratore calca spesso la mano sull’esito della perizia statistica sui decessi in reparto: negli ultimi due anni di lavoro, Poggiali nei suoi turni ha avuto 90 decessi in più rispetto alla media delle colleghe, «un dato che i periti sono certi non possa essere riconducibile al caso o alla sfortuna come invece ha sostenuto l’imputata». Aveva proprio detto così a dicembre quando aveva accettato di essere interrogata mostrando il solito piglio deciso mai perso: «Per tutto il tempo ha sfidato la procura, le parti civili e la corte mentendo ripetutamente», dice oggi il pm. E mentre lo dice i fatti confermano: la donna è stata una statua di ghiaccio, qualche sorriso per il fidanzato e qualche amico e nessuna emozione per il resto del tempo.

In tre ore di conclusioni Scorza dipinge nuovamente il profilo dell’ex infermiera già emerso anche in precedenti passaggi giudiziari: la donna, residente a Giovecca di Lugo e in carcere a Forlì da un anno e mezzo, «in criminologia verrebbe definita un serial killer dominante che uccidendo si sente potente». Qui starebbe il movente per l’accusa: non la pietas per alleviare la sofferenza dei malati – «Non le frega niente delle loro sofferenze, i pazienti li considerà una sua cosa propria per i suoi impulsi più o meno sadici» – ma il compiacimento di dare la morte. Quella della Calderoni sarebbe arrivata per sfida: l’8 aprile Poggiali è in turno dalle 7 alle 14 perché si è deciso di non farle fare più le notti proprio per i sospetti a suo carico che circolavano da tempo in corsia. E secondo Scorza l’imputata voleva dimostrare di poter comunque uccidere. Il pm va in prestito dalle riflessioni sulla perversione elaborate dallo psicoanalista francese Jacques Lacan: «Si riassume tutto in due parole: “Perché no?”. Il “Perché no?” assertivo del perverso, di chi pensa di poter fare tutto». E sul maxi schermo in aula tornano ancora una volta le due foto: «Eliminano ogni equivoco sul movente. Nulla rende meglio la personalità di Poggiali. Qui siamo di fronte a qualcosa che assomiglia all’esibizione dei cadaveri come trofei in tempi di guerra».

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