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    Categoria: società

«Non ci sono prove per una condanna» L’avvocato dell’infermiera Poggiali chiede l’assoluzione dall’accusa di omicidio

Il pm aveva chiesto l’ergastolo per la morte di una paziente 78enne. In aula durante l’arringa il penalista ha provato empiricamente a mettere il potassio nel deflussore…

La sua vita sarà distrutta in ogni caso ma almeno merita una sentenza coraggiosa che è quella di assoluzione perché non ci sono prove che sia stata lei a uccidere: si chiude con questa richiesta, pronunciata con enfasi il 4 marzo scorso in corte d’Assise, l’arringa di tre ore dell’avvocato Stefano Dalla Valle che difende la 44enne Daniela Poggiali, ex infermiera di Lugo accusata dell’omicidio volontario di una 78enne sua paziente l’8 aprile 2014 con una somministrazione massiccia di cloruro di potassio (Cdp). Nell’udienza di una settimana prima la pubblica accusa aveva invece chiesto l’ergastolo con isolamento diurno per un anno e mezzo. L’11 marzo sarà la giornata della replica del pm, controreplica della difensa e poi si aprirà la camera di consiglio per arrivare alla sentenza. Tra le richieste formulate dal legale alla corte figura anche quella di una perizia che accerti la possibilità effettiva di introdurre potassio attraverso la camera di gocciolamento o la valvola di sfogo di un deflussore per flebo, cioè la modalità utilizzata dall’imputata per compiere il delitto secondo l’accusa.

In realtà che non sia del tutto impossibile introdurre potassio con una siringa nel deflussore è stato in parte, paradossalmente, dimostrato proprio dall’avvocato. Che davanti ai giudici nel corso del suo intervento si è giocato anche la carta plateale stendendo un canovaccio sul banco e ha voluto dimostrare empiricamente con una siringa e un deflussore quanto sia difficile il tentativo che per la procura la Poggiali avrebbe compiuto in 5-10 minuti.

In buona sostanza la linea difensiva con cui tentare di evitare il fine pena mai per la donna che si trova in carcere a Forlì da un anno e mezzo si basa sulla mancanza di prove che possano portare alla colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. E nel corso della ricostruzione presentata ai giudici il tema di fondo è quello di un ospedale e di un reparto e forse di un’Ausl che volevano sbarazzarsi di Poggiali. La tesi del complotto più volte sostenuta sin dalle prime battute anche dalla diretta interessata: «Una sfilata di infermiere a tratti indecorosa, con gente più interessata ad abbinare il tacco al decoltè».

L’avvocato Dalla Valle ha provato a sgretolare le certezze fornite dal sostituto procuratore Angela Scorza – che a un certo punto ha anche chiesto di far spostare di posto tra il pubblico il fidanzato di Poggiali «per evitare i suoi sguardi intimidatori ogni volta che mi volto» – un pezzo per volta sottolineando le contraddizioni e il «pressapochismo» di certi testi, fornendo un quadro clinico della paziente Rosa Calderoni tutt’altro che stabile, ventilando nemmeno tanto velatamente l’inquinamento di alcune prove raccolte in maniera errata, sostenendo che l’intervallo di un’ora e venti minuti tra presunta somministrazione di Cdp e morte è troppo lungo per essere compatibile con un decesso da potassio per somministrazione esogena. Sull’autopsia l’affondo più deciso: i risultati dicono che non è morta per cause naturali ma questo potrebbe essere dovuto all’incapacità di cercare le cause naturali perché si è dato per scontato che fossero cause esterne. Insomma quella presenza di potassi riscontrata non è necessariamente attribuibile a un fattore esterno ma potrebbe essere compatibile con una condizione di iperpotassemia collegata al diabete di Rosa Calderoni.

Ma come facilmente previsto, l’attenzione si è incentrata sul deflussore. La chiave del processo. Non solo perché solo da lì può essere transitato il presunto potassio killer ma anche perché quello agli atti risulta collegato a un ago cannula con Dna maschile. L’ha sostituito, sostiene l’accusa. No, ribatte la difesa: quello era di un altro paziente e in effetti quella mattina un uomo era destinato a terapia di potassio.

Nelle ultime battute dell’arringa ha chiamato per nome, citando a caso, alcuni dei giudici popolari che compongono la corte accanto ai togati. Invitandoli, in virtù di quella fascia tricolore che portano a tracolla e che rappresenta il popolo, a non farsi ingannare «dal fango e dalla melma dei giornali che dovevano solo vendere copie»: il riferimento è alla pubblicazione delle celeberrime foto di Poggiali in posa con un altro cadavere appena deceduto tre mesi prima.