«San Patrignano è stata la mia famiglia. Ma quando esci devi rifarti una vita…»

Parla un’ex ospite della comunità tornata sotto i riflettori grazie a Netflix: «Mi drogavo girando l’Italia in autostop, a salvarmi è stata un’auto rubata… e l’imboscata di mia mamma. La serie tv? Mi ha fatto arrabbiare»

Giorgia Bulzacca

Giorgia in una foto scattata all’interno della comunità

«Usciti da San Patrignano in tanti, come me, si sono ritrovati con una nuova dipendenza, quella da viaggio. Con la necessità discoprire sempre cose nuove. Ritrovandosi senza più radici».

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Giorgia Bulzacca, 41enne ravennate, vive in Spagna, dove è diventata mamma di tre bambini. A fine anni novanta è entrata a San Patrignano, dove è rimasta per quasi cinque anni. Abbiamo raccolto la sua testimonianza, in questo periodo in cui la comunità di recupero riminese è tornata alla ribalta delle cronache nazionali per il successo della docu-serie prodotta da Netflix. «L’ho vista e mi ha fatto venire una gran rabbia – ci dice Giorgia nel corso di una videochiamata –. Mi è sembrata una mancanza di rispetto per tutta la gente che ha lavorato per creare questa comunità e che tutt’ora ci lavora. Un modo per parlare solo di Muccioli e dei suoi metodi, arrivando perfino a ritirare fuori il tema della sua presunta omosessualità. Senza raccontare invece nulla su quello che è stato, anche dopo Vincenzo, San Patrignano».

Giorgia è entrata pochi anni dopo la morte di Muccioli, quando al comando c’era il figlio Andrea. «Con cui non ho nemmeno quasi mai parlato, non avendo avuto mai particolari problemi. È tutta San Patrignano – ricorda – a essere stata invece come la mia famiglia, verso cui non posso che provare un forte sentimento di amore, misto a rabbia, come in tutte le famiglie credo».

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Ma la violenza di cui si parla nella serie (riferita comunque a un decennio prima) no, Giorgia non l’ha vissuta. «Mai visto catene o pestaggi. Se qualcuno veniva beccato a scappare, semplicemente, poteva venir chiuso nella propria camera per un po’, ma mi sembra normale. Nei primi dieci anni immagino possano essere stati fatti degli errori. Ma c’era anche una certa ignoranza sul tema, nessuno in quel periodo si occupava di quelle persone, che vivevano in strada. Muccioli può aver sbagliato, ma credo che sia stato anche calunniato e gli autori del documentario ne abbiano approfittato per cercare di fare audience, senza riuscire a raccontare davvero una realtà così grande».

Giorgia ricorda poi le sue esperienze estreme pre-comunità.«Diciamo che ho rappresentato quella sorta di ricambio generazionale nel mondo delle droghe avvenuto negli anni novanta, quando sono entrate in gioco altre sostanze, oltre l’eroina. A 19anni sono entrata in un giro di amicizie con cui frequentavo le discoteche della Riviera, i rave party: ho provato Lsd, Ecstasy, acidi. Per me era un po’ come il paese dei balocchi, in quel periodo. Dopo la maturità mi sono fatta prendere un po’ troppo la mano e insieme a un’amica “punkabbestia” sono andata via di casa, girando l’Italia in autostop. E ogni tanto ho provato anche l’eroina, sì, anche se non sapevo neppure fare a bucarmi, mi facevo aiutare da altri. La svolta un giorno, vicino a Trento, con un ubriaco che stava tentando i primi approcci: avremmo rischiato di essere violentate, ma siamo riuscite a rubargli l’auto e a scappare». Quell’auto –ancora non lo sapeva – che avrebbe rappresentato la sua salvezza. «Abbiamo pensato di venderla, trovando un acquirente a Milano. Lì, però, siamo state fermate dai carabinieri…». Con una denuncia di scomparsa pendente, Giorgia è stata raggiunta in caserma dai genitori. «Una volta uscita –ricorda – ho subìto una vera e propria imboscata: mia mamma mi ha fatto bloccare da due uomini che mi hanno messo su una macchina per Ravenna. Ricordo ancora che urlai e battei i pugni sui finestrini per tutto il viaggio. Poi, una volta a Ravenna, i miei hanno visto i buchi sulle braccia e mi hanno chiusa in casa, altro che i metodi di Muccioli –sorride –. Così ho accettato di buongrado di andare a fare il colloquio per entrare a San Patrignano, almeno lì avrei visto qualche persona…».

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Persone con cui poi Giorgia ha legato al punto che ancora oggi, 15 anni dopo, ha una chat Whatsapp con loro e si telefonano per farsi gli auguri. «Sono come la mia famiglia».

«Il metodo San Patrignano? Vivere una vita normale –spiega –: alzarti presto, fare determinate mansioni, lavorare. Senza restare mai sola. C’è sempre il tuo “angelo custode” che ti controlla e ti aiuta. E dopo un anno-un anno e mezzo, quando tocca a te farlo per altre persone, è una grande gratificazione. È un percorso a scale: un altro obiettivo è quello di poter avere la chiave della tua stanza, che solitamente tiene solo il responsabile. E poi a un certo punto puoi muoverti da sola dentro San Patrignano, che è grande come una città. A quel punto il più è fatto, hai quasi completato il percorso». Dopo quattro anni e mezzo, anche perGiorgia è arrivato il momento di andarsene. «A San Patrignano era come vivere in una campana di vetro, protetta. Fuori ti ritrovi invece in una giungla. In quei primi mesi è stata dura. Devi trovarti un lavoro, nuovi amici. Devi rifarti una vita. E in tanti come me ne hanno approfittato per viaggiare». Per poi fermarsi, nel caso di Giorgia, in Spagna, dove ha messo su famiglia. «Se parlerò della mia “prima vita” ai miei figli? Sì, ma quando saranno più grandi (ora hanno 9 e 11 anni, ndr). Adesso quando mi chiedono dov’ero in quelle foto di San Patrignano che conservo ancora, rispondo che ero in un villaggio turistico. Che è quasi la verità…».

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