Tra i pochi tennisti italiani nella storia a entrare nella top 20 mondiale, Andrea Gaudenzi è stato il volto del tennis tricolore negli anni Novanta, quando ancora nessuno si sarebbe immaginato che un italiano sarebbe potuto arrivare addirittura al numero 1.
Classe 1973, nato a Faenza (dove il nonno fu l’ideatore del primo campo dell’attuale Tennis Club) e cresciuto (fino alla seconda media) a Ravenna, Gaudenzi fu specialista della terra rossa, dove ha conquistato tre titoli Atp. Dal 2020 è al vertice del tennis mondiale nella veste di presidente dell’Atp (l’associazione che riunisce i tennisti professionisti di tutto il mondo e i tornei, a eccezione dei quattro Slam), rieletto l’anno scorso per una carica che ricoprirà quindi fino almeno al 2026.
Gaudenzi, cosa fa il presidente dell’Atp?
«Rappresento l’associazione del tennis professionistico maschile e mi occupo quindi della sua gestione, anche e soprattutto per quanto riguarda l’aspetto dell’entertainment. Un lavoro complesso a causa della varietà di interessi che ci sono in ballo e che possono essere contrastanti, da quelli dei giocatori fino a quelli degli azionisti dei tornei. In questo momento ci sono troppe entità che gestiscono il mondo del tennis, la sua struttura frammentata è una delle cause principali per cui non si è stati in grado di massimizzarne il potenziale finanziario. Per questo motivo, da presidente, sto cercando di portare avanti la strategia “OneVision” che si basa su tre capisaldi: promuovere l’unità di governance fra le varie entità che dirigono il mondo del tennis, migliorare l’esperienza dei fan e sfruttare l’opportunità di crescita su scala in vari ambiti, tra cui soprattutto i media e l’evoluzione tecnologica a livello di dati e contenutistica».
Sfruttando anche la sua esperienza maturata una volta terminata la carriera…
«A fine carriera mi sono allontanato dal tennis per occuparmi di sport e marketing (dopo la laurea in giurisprudenza, Gaudenzi ha conseguito un Master in Business Administration a Londra e lavorato per la piattaforma di giochi online Bwin e della startup Real Fun Games, ndr) e poi anche in ambito musicale (in Musixmatch, una data company in contatto con case discografiche che detengono i diritti delle canzoni, ndr). L’esperienza all’estero e in altri settori mi ha fatto capire quanto a volte nel tennis non si tenda davvero l’attenzione verso gli appassionati, come per esempio nel campo della musica fa invece una piattaforma come Spotify. Noi rendiamo loro la vita un po’ complicata. L’obiettivo deve essere quindi quello di migliorare l’esperienza degli appassionati e avvicinarne altri al mondo del tennis. Senza dimenticare il ruolo dei giocatori, per i quali abbiamo comunque già ottenuto risultati importanti, come la divisione dei profitti in maniera equa e in totale trasparenza».
Che rapporto ha mantenuto con la Romagna?
«Vivo fra Londra, Montecarlo e la Florida, ma tutti i miei amici sono ancora in Romagna, quando posso ci torno. E quando riparto mi porto dietro il cibo romagnolo, cappelletti e piadina in primis…».
Quali sono i momenti che ricorda con più piacere della sua carriera?
«Difficile. Potrei dire la storica finale di Coppa Davis del ’98 a Milano (l’ultima finale italiana, persa contro la Svezia, prima della vittoria dell’anno scorso, ndr), la semifinale a Montecarlo (nel 1995, persa contro la sua bestia nera Muster, campione austriaco che è stato anche numero 1 al mondo, ndr). E poi naturalmente le prime vittorie, il primo titolo, il primo punto Atp».
Rimpianti?
«Se mi guardo indietro, alla luce anche dei nuovi metodi di allenamento, mi rendo conto di aver fatto una marea di errori, sia tecnici che di prevenzione degli infortuni, penso ad esempio a tutto il tema dell’alimentazione. Ma se ripenso ai miei sogni a 17 anni, credo davvero di aver fatto il massimo, considerando quei tempi, in base alla mia capacità».
Il tennis oggi è troppo fisico, troppo veloce?
«In realtà non credo. Negli ultimi vent’anni per esempio Federer non è stato stravolto da alcun cambiamento. Se invece si paragona il tennis di oggi con quello degli anni 70 e 80, allora sì, grazie ai nuovi materiali è tutto molto diverso. Anche a causa del cambiamento delle superfici, che una volta erano molto differenti una con l’altra mentre oggi si è tutto omogeneizzato, migliorando comunque la qualità dello spettacolo che ora vede sempre i migliori che giocano contro, indipendentemente dalla superficie».
Che rapporto ha con Sinner?
«Ho sempre avuto un ottimo rapporto con lui, ancor prima di diventare presidente. È un ragazzo fantastico che esprime la cultura della propria terra: estremamente umile, ordinato, quadrato, stakanovista. Una mentalità ideale per uno sportivo e un ragazzo esemplare anche fuori dal campo. La sua debolezza potrebbe essere solo legata al rischio infortuni, da gestire nel corso della carriera. Ma la sua mentalità è incredibile: già quando ci parlavo prima ancora di entrare nel circuito aveva l’obiettivo di arrivare in cima; tutto il contorno non lo tocca minimamente, è una cosa rara da vedere. Mi affascina anche la freddezza che ha sul campo nei momenti importanti: non sente la paura».
A questo proposito, cosa ne pensa del caso doping? E delle polemiche per la mancata partecipazione alle Olimpiadi?
«Sul tema doping faremo una comunicazione ad hoc come Atp e preferisco non commentare fino alla decisione del Cas (la Corte Arbitrale dello Sport, che dovrà esprimersi sul ricorso della Wada per il caso che coinvolge Sinner, giudicato senza colpa o negligenza dall’Itia per essere risultato due volte positivo al clostebol a marzo 2024, ndr). Sulle Olimpiadi, Sinner ha fatto la cosa giusta a livello di programmazione: il calendario è molto fitto e avendo avuto un problema fisico credo abbia fatto bene a non andare. La sua bravura – e quella anche di Novak (Djokovic, ndr) e Roger (Federer, ndr) è anche quella di saper dire di no. Djokovic ha vinto le Olimpiadi a 37 anni, per dire, Sinner avrà altre occasioni».
Anche se lei non si occupa di sport femminile, sta seguendo le vicende di Sara Errani, di cui condivide le origini romagnole?
«Non la conosco personalmente, ma la seguo sempre. Lei e Jasmine (Paolini, ndr) sono ragazze stupende, allegre, simpatiche. Vederle giocare e vincere è una gioia per il cuore».
Da cosa dipende questo exploit del tennis italiano?
«Credo ci sia dietro un ottimo lavoro della Fitp ma siano anche semplicemente momenti storici. Quando giocavo io c’erano quasi solo americani tra i top, mentre negli ultimi vent’anni praticamente non ce ne sono stati. Non credo sia possibile costruire un fenomeno come Sinner a livello “industriale”. Certo, la base era ottima e il sistema in Italia adesso funziona, sono state fatte scelte importanti, come la decentralizzazione dei centri di allenamento federali, l’introduzione di tanti Challenger e anche SuperTennis a livello di comunicazione. Servono tanti ingredienti, tra cui anche un pizzico di fortuna».
A proposito di allenamenti, il tennis è sport solo per ricchi?
«Non è facile da genitore, lo capisco, però è così un po’ per tutti gli sport individuali. La federazione fa il possibile per sostenere gli atleti nelle trasferte, ma deve puntare per forza solo su alcuni, non può fare molto di più».
Cosa ne pensa del fenomeno Padel?
«Credo che la federazione abbia fatto bene a comprenderlo sotto la propria ala. Il tennis ha una curva di apprendimento lunga, un percorso complicato. Quindi cominciare da uno sport più semplice come il Padel può essere utile, così come averlo nello stesso circolo: se c’è più gente che passa, anche il movimento del tennis può trarne giovamento».