Igort: «Il fumetto è una forma di romanzo. Ma non lo accettano ancora tutti…»

Il grande autore sarà a Ravenna per il festival Enter del Teatro delle Albe

Igort

Igort, all’anagrafe Igor Tuveri, classe ’58, baffetto alla Fred Buscaglione e matita leggera, è un fumettista noto per il tocco lieve e le storie intense come Cinque è il numero perfetto e Quaderni giapponesi, oltre a essere conosciuto come fondatore della casa editrice Coconino (che ha lasciato in febbraio), che per prima in Italia ha dato rilievo editoriale alla graphic novel. Igort sarà a Ravenna, ospite del festival Enter del Teatro delle Albe, il 6 aprile alle 16 al Teatro Rasi in un incontro dal titolo “Sul narrare. Parlamenti di aprile” con lo scrittore Andrea Bajani e gli illustratori e autori di graphic novel Leila Marzocchi e Davide Reviati.

Il suo ultimo lavoro My generation parla degli anni ’70 e di grandi maestri di diverse arti come David Bowie e Lou Reed, Pasolini e Moebius. Era un modo per rendere un tributo a questi autori che hanno segnato gli anni della sua formazione?
«La cosa che a me interessava era raccontare una scena artistica e capire cosa è cambiato. Non vuole esere un’operazione nostalgica, mi piace molto internet e credo sia una grande opportunità che abbiamo oggi e che prima non c’era, ma tra la metà degli anni ’70 e la metà degli ‘80 si era creata una scena in cui tutti gli operatori culturali erano collegati tra loro. C’era un tessuto molto connesso dalle radio libere, alla nuova scena cinematografica di Herzog, Wenders, Fassbinder, dalla New Wave che inventò un approccio diverso e molto intellettuale alla musica al teatro che nasceva con quelli che sono oggi i suoi mostri sacri come La Societas Raffaello Sanzio e i Magazzini Criminali. C’era una grande cooperazione anche tra ambiti culturali diversi. Oggi ci sono tante isole, c’è una grande frammentazione».

Un dettaglio della copertina dell’ultimo libro di Igort, “My generation”

Erano gli anni della cosiddetta “controcultura”, che oggi è stata assorbita dal mainstream…
«La cultura alternativa aveva una rilevanza di massa tenendosi distinta dal mainstream. Basti pensare che i Sex Pistols vendettero un milione seicentomila dischi, i Talking Heads vendettero oltre due milioni di copie. Era una alternativa valida e con un grande seguito. Era una scelta. Non tutti vendevano molto ovviamente, i Velvet Underground vendevano poco, ma erano comunque molto influenti. Le radio libere raccontavano questa storia diversa da quella del mainstream. Oggi le radio “libere” trasmettono pop e il concetto di “alternativo” è molto all’acqua di rose».
Come è cambiato il fumetto dagli anni del primo Linus, di Frigidaire e di Andrea Pazienza? Che momento sta vivendo la graphic novel italiana?
«Il mondo è totalmente cambiato, ma rimane l’idea di autorialità. La possibilità di raccontare se stessi attraverso disegni e parole sganciati dal genere e dalla serialità. Non ci sono più le riviste, ma ci sono più libri e c’è la possibilità di fare storie dal lungo respiro che in quegli anni erano impensabili».
In grande ritardo rispetto a paesi come la Francia, pare che finalmente oggi anche in Italia il fumetto sia stato riconosciuto come arte a tutti gli effetti, tanto che anche premi come lo Strega, notoriamente un po’ paludato sotto certi aspetti, ha visto tra i canditati negli ultimi anni anche due fumettisti: Gipi e Zerocalcare. Abbiamo finalmente superato anche noi lo stereotipato pregiudizio verso il fumetto?
«Sta passando l’idea che il fumetto è una delle forme del romanzo, che è l’idea per cui fondai Coconino. Alcuni si accorgono oggi che è possibile lavorare usando anche immagini oltre alle parole. Stupisce che questa idea ci abbia impiegato tanto tempo a emergere. Però non è ancora accettata del tutto. Conosco diversi “signori della cultura”, alcuni che votano anche per lo Strega, che non si sognerebbero mai di votare per una graphic novel. Da Dino Buzzati in poi il fumetto è una forma aperta e ricca, porsi dei limiti è una forma di masochismo».
Negli anni, attraverso Coconino, ha scoperto molti autori e portato in Italia autori stranieri che non erano mai stati tradotti. C’è qualcuno di questi di cui va particolarmente orgoglioso?
«Vado orgoglioso di aver creato, io con loro, una scena che prima non esisteva. Una fucina che ora proseguirà al di fuori di Coconino con i miei autori. È un unicum a livello europeo, un luogo in cui gli autori si parlano tra loro, si confrontano, si consigliano, si influenzano tra loro. Ricorda quello che facevamo negli anni ‘80 io Mattotti, Tanino Liberatore, Pazienza, Tamburini, ognuno sperava di fare cose che sarebbero rimaste e ci sfidavamo tra noi».
Lei ha anche introdotto una certa figura dell’editor nel fumetto, mentre prima era una cosa esclusiva della narrativa, come iniziò questo tipo di confronto tra autore e editor?
«Con i giapponesi ho imparato l’importanza della figura dell’editor, che prima malsopportavo. Un editor bravo è uno specchio che ti aiuta a capire cosa vuoi, non che impone una sua visione. Questo è il metodo giapponese che ho applicato in Italia e che ha dato i suoi frutti. Ascolto e pongo domande per rendere il racconto più elaborato e consapevole».
Nel suo lavoro si trovano molti tributi al Giappone, è stato anche il primo italiano a fare un manga nel 1994. Quanto è stata importante nella sua formazione? In che modo il Giappone ha modificato il modo di fare fumetti e ha spostato lo sguardo dagli Stati Uniti ad oriente?
«È stato molto importante, e non solo per me. Io amo molto la raffinatezza visiva e narrativa dei giapponesi. A livello di racconto mi ha affascinato il fatto che non avessero limiti. Negli anni ’80 da noi una storia considerata “lunga” era di 60 pagine, da loro 60 pagine era un capitolo. Facevano storie di mille pagine, di 50 volumi. Per farlo bisognava tenere l’attenzione del lettore con storie articolate e decine di personaggi. Era una cosa che da noi non esisteva. È stato un modo per misurarsi con un’idea diversa di scrivere fumetti. Ho scoperto anche il silenzio. Loro raccontavano storie con lunghi silenzi, non avevano l’orror vacui che avevamo noi. Parlavano i gesti e gli sguardi. Il mio spettro di narratore si è molto arricchito lavorando in Giappone. Oggi se arriva Davide Reviati e mi porta 500 pagine per il suo nuovo libro non mi sconvolgo, perché le proporzioni del racconto si sono ampliate».
Come sarà ora la sua nuova avventura editoriale dopo l’uscita da Coconino?
«È ancora troppo presto per dirlo, ma sarà con lo stesso gruppo di autori e lo stesso spirito di prima. Però per ora non posso aggiungere altro».

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