Eugenio Baroncelli: «La brevità? È esistita prima della lunghezza»

Lo scrittore di nuovo in libreria per Sellerio, questa volta con “Risvolti svelti”

Eugenio Baroncelli

Eugenio Baroncelli

«Curzio Barba, l’uomo che si sbagliò di uomo. Nacque nel 1944 a Solarolo (Ravenna). Il paese non era infinito, e la ineludibile compagnia degli uomini, delle donne e degli angeli del cielo di Solarolo lo annoiava mortalmente. Pensando che il miglior rimedio contro la noia fosse la solitudine, si asserragliò in casa. Sembra una fortuna e invece fu una disgrazia. Fino alla fine dei suoi giorni dovette convivere con Curzio Barba, l’uomo più noioso di Solarolo». Recita uno dei tanti risvolti di copertina scritti da Eugenio Baroncelli, autore ravennate che è un po’ come i suoi personaggi: ermetico, poetico, solitario, saggio e spesso incompreso. Risvolti svelti è il suo nuovo libro edito da Sellerio (la casa editrice di Camilleri, Manzini e Malvaldi, tanto per ricordarlo) per cui negli anni passati ha già pubblicato Libro di candele: 267 vite in due o tre pose (2008), Mosche d’inverno: 271 morti in due o tre pose (2010), Falene: 237 vite quasi perfette (2012), Pagine bianche: 55 libri che non ho scritto (2013) e Gli incantevoli scarti: Cento romanzi di cento parole (2014).

Eugenio Baroncelli sarà ospite del ciclo di incontro Il caffé letterario di Lugo venerdì 17 novembre alle 21 all’Hotel Ala d’oro proprio per presentare il suo ultimo lavoro.

Risvolti Svelti, copertina

Da dove nasce questo nuovo libro?
«Nasce dai morti. I morti dai quali noi veniamo. Se torniamo da loro vuol dire che torniamo a casa. Dal punto di vista della cronaca viene da due anni di canzonette. Ho abbandonato il libro, inteso come oggetto che si espone nelle vetrine. Abbiamo fatto due dischi di cui ho scritto le parole, ma non le melodie ovviamente, assieme a un gruppo di musicisti (che saranno con lui anche nell’incontro de Il Tempo Ritrovato alla biblioteca Classense di Ravenna il 14 febbraio, ndr). È un altro tipo di scrittura. Sono canzonette. Non so se il diminutivo diminuisce anche il concetto… Poi sono tornato, senza particolari pressioni editoriali, alla scrittura».
Cosa hai portato di questa esperienza musicale nella scrittura?
«Nulla, è l’esperienza musicale che ha avuto dei contributi dalla musicalità della parola. Io non sono un paroliere professionista, e ho la tendenza a scrivere dei testi che hanno già la musicalità dentro. Un testo scritto è musica. Se va musicato è una musica che si somma all’altra. Si devono accordare».

Nei tuoi libri trovano significato in poche righe vite anche molto complicate…
«C’è un problema di brevità. Quando uno invecchia (Baroncelli è un insegnante in pensione nato a Rimini nel 1944 e che vive a Ravenna, ndr) diventa più corto. Si abbrevia. A ottanta anni sei alcuni centimetri più breve di quando eri giovane. Questo nuovo libretto è più smilzo degli altri, perché ho voluto che fosse nella collana dei libri piccoli di Sellerio».
Ti sei divertito a inventare risvolti di libri inesistenti. Che rapporto hai con i risvolti dei libri degli altri?
«I risvolti sono due. Uno spiega che accidenti c’è scritto nel libro. L’altro dice chi diavolo è l’autore. C’è una persona che di lavoro scrive questi risvolti. È un lavoro terribile e sottopagato, che presuppone che tu legga decine di libri al giorno per scrivere qualcosa che riassuma senza essere un riassunto. Un breve testo che dica tutto, ma lo faccia in modo accattivante. Insomma un lavoro ingrato. Io quando entro in libreria solitamente non li leggo i risvolti di copertina, so già cosa voglio comprare».
La scrittura brevissima è la tua ossessione, a che tradizione letteraria sei più legato in questa brevità?
«È una tradizione vecchia come il cucco. È esistita prima della lunghezza. La brevità è qualcosa che nasconde le peggiori lungaggini. La brevità lascia fuori tutto quello che non hai scritto o per dirla in modo più dolce, se sei breve devi fare molte rinunce. Ci sono molte cose non dette. C’è molta nostalgia».
Qual è tuo rapporto di scrittore con Ravenna?
«Io abito sopra una libreria. Loro i miei libri non li hanno. Non li ordinano: neanche una copia. Me lo ha detto l’editore. Mi ha chiesto perché… Gli ho detto che è una scelta legittima. Bisognerebbe chiedere alla città che rapporto ha con me. Il mio rapporto nei suoi confronti è ottimo. Non perché la città abbia sfide particolari, ma perché nessuno mi rompe i coglioni. È abbastanza sonnolenta e culturalmente pigra, a parte qualche eccezione. Ama ripetersi stancamente. Di buono c’è che mi posso fare i fatti miei e nessuno mi scoccia. Questo mi piace».
C’è un tavolino del bar Fresco di via IV Novembre in cui si ritrova un gruppo di intellettuali cittadini tra cui tu, Nino Carnoli, Marcello Landi, Gigi Canestrari, per parlare di Joyce, di arte, del Torino Football Club e anche di traffico… Lì ti occupi anche di cultura cittadina in qualche modo…
«Faccio parte della associazione DisOrdine, ma perché sono amico di Landi e Carnoli, che si impegnano molto a fare tante cose. Io sto lì, ma defilato. Non faccio niente. Io sto sempre ai margini delle cose, lì mi trovo bene».

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