Ergastolo per tutti i tre imputati. È la richiesta della procura generale nel processo d’appello per l’omicidio di Pier Paolo Minguzzi, un 21enne di Alfonsine, studente di Agraria e terzo genito di una facoltosa famiglia di imprenditori dell’ortofrutta, trovato morto l’1 maggio 1987 a distanza di dieci giorni dal rapimento con la richiesta di 300 milioni di lire come riscatto. L’accusa ha quindi confermato la richiesta di pena già presentata in primo grado in corte d’assise a Ravenna, ma la sentenza di giugno 2022 fu di piena assoluzione.
È in corso a Bologna dalle 10 di oggi, 30 settembre, l’ultima udienza del processo di secondo grado. La giornata si è aperta con la discussione della procura generale. A seguire la parola andrà alle tre parti civili (la madre 91enne, il fratello e la sorella della vittima, tutti presenti in aula come è stato nelle oltre venti udienze cominciate a maggio 2021 in primo grado a Ravenna) e poi alle difese. In serata i giudici potrebbero ritirarsi in camera di consiglio per la sentenza.
Gli imputati sono il 60enne Orazio Tasca di Gela, il 61enne Angelo Del Dotto di Ascoli Piceno e il 69enne Alfredo Tarroni di Alfonsine. I primi due, all’epoca dei fatti, erano carabinieri in servizio alla stazione di Alfonsine. Il terzo era l’idraulico del paese e loro amico stretto. Nessuno di loro è presente in aula oggi (Del Dotto e Tarroni seguirono il procedimento di primo grado).
«La corte ha la possibilità storica di mettere fine a una sequela di errori», ha detto il pg Massimiliano Rossi al termine di un intervento durato un’ora. Rossi ha incentrato buona parte del suo ragionamento sul confronto con un altro omicidio per cui i tre odierni imputati sono stati condannati: un carabiniere, Sebastiano Vetrano, ammazzato a luglio 1987 al momento del ritiro di un riscatto di denaro estorto a un altro imprenditore di Alfonsine. Secondo le difese, i tre agirono perché vollero sfruttare l’ondata di paura in paese per la morte di Minguzzi.
«Sappiamo che i tre imputati a quel tempo avevano bisogno di soldi – afferma Rossi –. Ma qualcuno che non fosse coinvolto con la vicenda Minguzzi e avesse bisogno di soldi facili non avrebbe avuto alcun valido motivo per accostarsi a quel caso. A cominciare dal dettaglio che chi ha commesso il rapimento Minguzzi non aveva ricavato una lira». Rossi parla delle telefonate a Contarini che furono fatte da Tasca, per sua stessa ammissione: «Se il telefonista del rapimento Minguzzi era un siciliano, perché Tasca che era siciliano avrebbe dovuto mettersi in una posizione di rischio facendo le telefonate a Contarini se non era già l’autore delle telefonate ai Minguzzi?». E infine: «Se era passata la convinzione che l’omicidio di Minguzzi fu opera della mafia, quale persona innocente vorrebbe prendersi il credito di quella vicenda con il rischio di infastidire la mafia?».
Per l’accusa ha preso la parola anche Marilù Gattelli, pubblico ministero del processo di primo grado a Ravenna. Gattelli ha aperto il suo intervento facendo ascoltare un audio, la registrazione di una telefonata arriva alla famiglia Minguzzi il 27 aprile, sei giorni dopo il rapimento: si sente una voce dall’accento siciliano che inizialmente si sbaglia e chiede di Contarini anziché di Minguzzi. «L’estorsore si sbaglia – dice Gattelli – perché ormai Minguzzi era già morto e il rapitore, che aveva bisogno di soldi, già pensava al rapimento succcessivo».
La magistrata ripercorre dettagliatamente alcuni dei punti più controversi emersi nel dibattimento. Non è mai stata disposta una perizia fonica di comparazione tra le telefonate del caso Contarini e quelle del caso Minguzzi, ma si fecero perizia su altre voce; i carabinieri imputati erano frequentatori abituali, fino a quattro volte al giorno, del bar Agip vicino all’abitazione della famiglia Minguzzi per presunti sopralluoghi prima del rapimento; il bisogno di denaro dei tre accusati, che sarebbe il movente dell’azione, dimostrato dai tentativi di prestito respinti dalle banche; i due investigatori che hanno testimoniato di essere stati ostacolati nelle loro indagini.