Cold case Minguzzi, le motivazioni delle assoluzioni: «È stato un omicidio di mafia»

Il giudice offre una lettura dei fatti che sposa l’ipotesi della difesa: «I tre imputati hanno alibi e mancano indizi contro di loro». Il corpo fu trovato incaprettato: «Impossibile riuscirci solo leggendo una rivista bondage». L’intercettazione: un accusato dice di aver ricevuto un’offerta di 400mila euro per parlare

3I tre imputati sono stati assolti «per l’assenza totale e conclamata non solo di prove, ma anche di indizi». E così «l’omicidio di Pier Paolo Minguzzi resta tutt’ora un mistero. Anzi, un segreto». Una cosa però è chiara: non è stato un rapimento di persona a scopo di estorsione, ma un sequestro per omicidio, più precisamente «un omicidio di stampo mafioso, un classico esempio di “lupara bianca”». È la sintesi in poche righe delle 280 pagine firmate dal giudice Michele Leoni, presidente della corte d’assise di Ravenna, per motivare la sentenza di giugno 2022 nel processo per la morte nel 1987 di un 21enne studente di Agraria, carabiniere di leva a Mesola (Ferrara) e terzogenito di una facoltosa famiglia di imprenditori ortofrutticoli di Alfonsine. L’accusa chiedeva tre ergastoli.

Il magistrato non solo smonta pezzo per pezzo il castello accusatorio costruito dalla procura (pm Marilù Gattelli) nel corso delle 17 udienze (qui la cronaca di tutte), ma offre una lettura dei fatti che inquadra la vicenda in un contesto segnato dalla criminalità organizzata, ipotesi proposta anche nell’arringa della difesa di Tarroni (avvocato Andrea Maestri).

Gli imputati e le accuse
Alla sbarra c’erano tre uomini: il 58enne Orazio Tasca di Gela e residente a Pavia, il 59enne Angelo Del Dotto di Ascoli Piceno e il 67enne Alfredo Tarroni di Alfonsine. I primi due, all’epoca dei fatti, erano carabinieri in servizio alla stazione di Alfonsine. Il terzo era l’idraulico del paese e loro amico stretto. Secondo l’accusa, i tre avrebbero rapito Minguzzi nella notte fra il 20 e il 21 aprile di 36 anni fa e lo avrebbero ucciso poco dopo, perché il giovane li avrebbe riconosciuti, e per dieci giorni avrebbero telefonato ai familiari chiedendo 300 milioni di lire (una somma paragonabile grossomodo come valore a 350mila euro odierni). «Perché uccidere il rapito se si voleva ottenere il riscatto?», obietta il giudice. L’1 maggio il corpo affiorò nelle acque ferraresi del Po di Volano. Nel 1996 la chiusura dell’indagine. Nessuno è mai stato indagato fino al 2018, alla riapertura del fascicolo con un esposto dei familiari. Il trio di imputati però fu condannato nel 1988 per omicidio e tentata estorsione in una vicenda dai contorni analoghi nella stessa Alfonsine.

2Gli alibi
Sono ben 14 le pagine in cui il giudice ricostruisce gli alibi dei tre accusati. Partendo da un assunto consolidato in giurisprudenza: “Non averne uno non significa essere colpevoli”. Circostanza applicabile in particolare a Tarroni che nell’interrogatorio in aula ha ammesso di non ricordare cosa facesse la notte del rapimento. Leoni sfida chiunque a ricordare dove fosse un giorno qualsiasi del 1987. Del Dotto era di turno come piantone in caserma – dove dice di aver ricevuto nella notte le telefonate della madre di Minguzzi preoccupata perché non vedeva rientrare il figlio, ma la donna nega – e non ci sono prove che sia potuto uscire per partecipare al rapimento. Tasca invece era inquadrato dalla procura come l’anonimo telefonista, ma la prima chiamata ai Minguzzi arriva alle 21 del 21 aprile e a quell’ora il carabiniere di origini siciliane era al Casinò di Venezia con un commilitone.

Il casolare del sequestro
Le motivazioni vanno a scardinare anche punti sui quali nemmeno le difese avevano insistito in modo particolare. Il nascondiglio dove Minguzzi sarebbe stato detenuto dei sequestratori per un periodo non ben precisato era stato individuato in un casolare nel podere Ca’ Cella nella località Vaccolino. «Ipotesi totalmente infondata», scrive Leoni. A sostegno di questa tesi accusatoria c’è la corrispondenza fra le inferriate dell’edificio e la grata di 16 kg cui era stato legato il corpo del rapito prima di essere gettato in acqua. Ma il giudice passa in rassegna la descrizione dei luoghi riportata dai verbali dell’epoca: «Si trattava di un luogo per incontri sessuali e quindi frequentato da persone». La maglietta bianca da pelle ritrovata in quel capannone non poteva essere di Minguzzi – nonostante l’indicazione delle unità cinofile – perché il cadavere ne indossava una.

8Gli scarponcini del comacchiese
Nel maggio del 1987 i carabinieri di Comacchio trovarono un paio di scarponcini in possesso di una persona residente a Mesola (nella frazione Pesce) che avevano una suola con impronta simile a quelle repertate dai militari nel casolare di Vaccolino dove sarebbe stato detenuto Minguzzi dopo il rapimento. Lo riporta il giudice che ritiene di non nominare il nome della persona “per opportunità”.

Il cadavere incaprettato
E poi le condizioni di ritrovamento del cadavere. L’autopsia dice che la morte è arrivata per soffocamento e quindi l’immersione è successiva: un tentativo di occultamento del corpo, legato con la tecnica dell’incaprettamento (polsi e caviglie unite dietro la schiena con una corta passante attorno al collo: la distensione degli arti causa la stretta al collo e lo strangolamento). Nell’armadietto di Tasca venne trovata una rivista hard con illustrazioni di pratiche di bondage, ritenute compatibili con il modo in cui era legato Minguzzi. Il giudice ritiene improbabile che gli imputati possano aver imparato una tecnica così complicata dalle figure di un giornaletto.

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I giudici togati della corte d’assise per l’omicidio Minguzzi: il presidente Michele Leoni, a latere Federica Lipovscek

I 400mila euro offerti all’imputato
Un investigatore privato, ex capitano dei carabinieri, avrebbe offerto 400mila euro a uno dei tre imputati in cambio di informazioni utili per ricostruire la vicenda. La circostanza rimasta inedita nel corso del dibattimento è emersa dalle motivazioni della sentenza Minguzzi che riportano alcuni passaggio delle intercettazioni telefoniche a carico dei tre accusati. In particolare l’episodio riguarda Alfredo Tarroni. L’uomo ne parla al telefono con un’amica a maggio 2018, quando la squadra mobile sta lavorando al caso. L’avvicinamento del detective sarebbe avvenuto nella prima metà di marzo di quell’anno mentre Tarroni era in ospedale per sottoporsi a un intervento chirurgico. Sempre stando a quanto raccontato dal 67enne, l’investigatore mostro una valigetta con 200mila euro in contanti promettendone altrettanti dopo otto giorni se avesse fornito informazioni. Dopo quell’episodio nella buchetta delle lettere di casa arrivarono fotografie plastificate del volto di Minguzzi e della lapide di Taglio Corelli in ricordo del carabiniere ucciso nell’operazione Contarini.

L’agendina di Minguzzi
Una annotazione investigativa firmata da un maggiore dei carabinieri il 18 aprile 1989 chiedeva accertamenti sull’identificazione di un Alex annotato in un’agendina di Minguzzi con recapiti telefonici di località in Usa e Messico. Il pm nega l’esistenza di questo oggetto. Il giudice ribatte: «Nella storia giudiziaria vi sono stati episodi eclatanti di agente e/o borse scomparse: nessuno eccepirebbe mai che la borsa di Moro o l’agenda rossa di Borsellino non siano esistite perché mai sequestrate».

IMG 4809Il rapporto tra il sedicente Alex e la fidanzata di Minguzzi
Il quarto e ultimo capitolo di cui si compongono le motivazioni della sentenza, vergato dal giudice Michele Leoni, si intitola “I lati oscuri”. Per un centinaio di pagine il focus si concentra in particolare su due persone che sono state sentite dagli investigatori e anche in aula come testimoni durante il dibattimento. Si tratta di Sabrina Ravaglia e Enrico Cervellati. La prima era la fidanzata della vittima all’epoca dei fatti e, secondo la procura, l’ultima persona ad aver visto Minguzzi in vita. Il secondo è un 63enne lughese che all’epoca dei fatti faceva il cameriere e tenne una lunga corrispondenza con Ravaglia, via telefono e via lettera, cominciando da due giorni dopo il rapimento e andando avanti per quasi due anni nascondendosi sempre dietro al nome di fantasia di Alex (peraltro lo stesso nome che compare in un’agenda di Minguzzi non ritrovata (vedi box a destra). Cervellati racconta a Ravaglia di essere coinvolto nel sequestro. Sostiene di averla pedinata e di aver tenuto sotto osservazione Minguzzi negli ultimi giorni prima del sequestro. Durante l’interrogatorio in tribunale, il sedicente Alex ha detto che erano tutte millanterie di un giovane che si sentiva solo e voleva fare colpo su una ragazza di cui aveva scoperto l’esistenza dai giornali che trattavano il caso di cronaca. Per la corte non è così: Leoni è convinto che quel cameriere ci sia dentro fino al collo, al punto da aver trasmesso gli atti alla procura con una denuncia per falsa testimonianza e reticenza. Non solo: «La Ravaglia non è credibile», scrive il giudice mentre passa in rassegna l’attendibilità di alcune dichiarazioni rilasciate nella ricostruzione dei fatti di quei giorni.

Una volta esaminata nei dettagli la stesura delle motivazioni, la procura decidera se fare ricorso in appello, l’auspicio già avanzato dai familiari della vittima come parti civili.

 

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