martedì
01 Luglio 2025
L'INTERVISTA

Alessandro Renda e uno smarrimento esistenziale dai toni surreali

«Vita e morte in un gioco buffo»

Condividi
Alessandro Renda (ph. Marco Parollo)
Alessandro Renda – Foto di Marco Parollo

Da lunedì 16 a domenica 22 settembre (ore 21, mercoledì 18 ore 20, venerdì 20 e domenica 22 ore 19) il ridotto del teatro Rasi ospita HereThereWhere, spettacolo ideato, diretto e interpretato da Alessandro Renda delle Albe insieme a Mark Anderson e Isabelle Kralj, fondatori della compagnia statunitense Theatre Gigante. È lo stesso Renda a raccontarci com’è nato questo spettacolo – co-prodotto da Albe/Ravenna Teatro – e di un altro nuovo progetto in arrivo a ottobre.

Alessandro, HereThereWhere ha una genesi le cui origini hanno ormai una decina d’anni. Com’è andata?
«Il lavoro è in effetti l’approdo, un po’ strano, di un progetto che viene da lontano. Ho conosciuto Theatre Gigante nel 2014, durante la tournée statunitense di Rumore di acque delle Albe, a New York, nel New Jersey e a Chicago. Proprio a Chicago, grazie all’invito di Thomas Simpson (traduttore in inglese di molti importanti autori italiani, tra i quali Marco Martinelli), Isabelle Kralj e Mark Anderson, co-direttori di Theatre Gigante, assistono allo spettacolo e decidono di ospitarlo a Milwaukee, nel Wisconsin. I due se ne innamorano e mi chiamano per farne una sorta di rielaborazione – che diventa Noise in the Waters – con la collaborazione del compositore e fisarmonicista americano Guy Klucevsek. Da lì è nata una grande amicizia e poi anche la voglia di fare un lavoro insieme. Ragionavamo spesso di questioni politiche, lì c’era Trump che stava avanzando, qui Salvini, volevamo parlare di quanto alcune paure nella società diventano poi una carta da utilizzare per certa politica, e comunque il passaggio dalla paura alla violenza ci sembrava così tanto globalizzato, nelle forme e nei modi, che ci sembrava interessante. Iniziammo allora a lavorare a un’opera che si doveva chiamare In the Belly of the Beast, ed era un lavoro in cui si fondevano vari testi, da Hannah Arendt a Dostoevskij a Proudhon; abbiamo lavorato facendo residenze ovunque, poi, nel 2020, quando doveva debuttare, è arrivata la pandemia, quindi, con i biglietti dell’aereo in mano, il progetto è saltato».
Ma la voglia di collaborare è rimasta.
«Sì, alla fine il tempo passava e abbiamo accantonato quell’idea, poi sono successe varie vicende di vita a ognuno di noi tre, e il tempo trascorso ha modificato le nostre esigenze. Quando ci siamo ritrovati per capire cosa fare ci sentivamo da “un’altra parte”, non che fossero esaurite le questioni politiche che ci animavano, tutt’altro, ma c’era qualcosa di più personale; smarrimento, ansia, ma anche questioni più individuali, profonde, ed è in quel momento che ci siamo imbattuti nella drammaturgia dello sloveno Rok Vilcnik, che scrive molto anche per il cinema e testi di canzoni, che Isabelle e Mark avevano già messo in scena in uno spettacolo dal titolo Tarzan, molto ironico. Rok gli aveva dato anche una serie di testi mai pubblicati e quindi ci siamo trovati dentro questa drammaturgia “aperta” che sembrava il punto di contatto perfetto tra me e loro, anche per le diverse modalità di stare sulla scena. Ne è uscito un paesaggio sospeso tra nonsense e significato profondo che è diventato, due anni fa, il motivo della ripartenza».

RMP01388 (c)2024 Robert M. Powell Copy
HereThereWhere

Mi descriveresti lo spettacolo?
«La drammaturgia di Vilcnik ci è piaciuta perché è un mondo completamente aperto che inquadra uno smarrimento esistenziale in un modo per noi interessante, per niente retorico, e racconta un po’ quello che è successo anche a noi tre in questi anni. La storia è molto esile e basilare e si rifà a quei modelli di teatro dell’assurdo come Ionesco, Beckett, Karl Valentin: i tre protagonisti hanno ricevuto un enigmatico invito a una festa di cui ignorano giorno, luogo e orario. Non conoscono il mittente o il motivo dell’invito. E poi la grande domanda che si fanno è “da dove dobbiamo partire per andare a questa festa?”.
Queste domande non trovano risposte e i tre iniziano a scervellarsi per capire se il non andare potrebbe offendere qualcuno, ma chi?, iniziano a parlare di presenze divine, di dèi, di un mondo parallelo, un qui e ora o mai, parlano di morte, di cosa è reale o non lo è, arrivano temi esistenziali ma dentro un gioco molto buffo. Da qui il titolo, HereThereWhere, per spiegare questa bussola che si è completamente bloccata, la perdita di una direzione da prendere».
Lo spettacolo ha debuttato negli Stati uniti lo scorso maggio, com’è andata?
«A Milwaukee è andata benissimo, e lì è stato inquadrato chiaramente all’interno di una dinamica di slap-stick comedy. La stampa l’ha definito «un mondo, parallelo a questo, alla fratelli Marx». Il pubblico americano ha riso molto per l’apparente insensatezza della situazione, ma poi in certi passaggi lo spettacolo è anche evocativo e delicato, perché a tratti non si capisce nemmeno se i tre personaggi siano ancora vivi, rimane questa ambiguità del testo. Dunque una situazione sì comica, ma con un velo di malinconia».
In ottobre arriverà poi un altro tuo spettacolo, Nephesh. Proteggere l’ombra.
«Esatto. Abbiamo raccolto l’invito di Azimut a Ravenna Teatro di pensare a uno spettacolo per il cimitero. Sappiamo benissimo quanto il cimitero, indipendentemente dai diversi approcci che ognuno di noi può avere, è il luogo ideale per farsi attraversare da questioni che ci riguardano da vicino e nel profondo, riflessioni esistenziali che tutti possiamo avere, passaggi della vita in cui si attraversano momenti oscuri. Quindi l’idea di partenza era proprio di parlare del senso di vuoto, della paura, del rapporto che abbiamo con il tempo e quindi del tipo di priorità che diamo alle cose che facciamo quotidianamente, un tema, quello del tempo, che avevo già messo molto in discussione in un altro progetto teatrale sul tema del lavoro fatto insieme ai milanesi Zona K. Anche lì si parlava di qualità del tempo che viviamo e di quanto spesso lo sperperiamo facendo cose che non ci piace fare con persone con cui non ci piace stare».
Perché il cimitero?
«Perché è già un teatro. Lo spettacolo è una drammaturgia sonora in cuffia per venti spettatori, al tramonto, ma è teatro, non una guida del cimitero, né un podcast sul tema della morte, è proprio una strana conversazione che avviene tra la figura protagonista – che in qualche modo diventa poi il flusso di pensiero dello spettatore – e un’entità che si chiama Nephesh, parola che esiste in ebraico, in arabo e in tante altre lingue, una parola diamantina, che muta significato a seconda di come la usi: vuol dire soffio, essere vivente, gola, spiriti, tantissime cose. Il testo l’ho scritto con Tahar Lamri, mentre ho lavorato su tutti gli altri aspetti musicali e del suono con Francesco Tedde. È un evento che si vive insieme, un attraversamento del cimitero in cui emergono tante questioni, esistenziali, sì, ma anche legate all’architettura, alle immagini fotografiche.
È uno spettacolo pensato perché possa stare al cimitero di Ravenna così come in quello, che so, di Faenza, Milano o Palermo, non è specifico. È pensato come una carezza, con una sua sacralità. È un lavoro in cui c’è molto di mio, un flusso di coscienza di questioni varie. La cosa particolare – di cui mi sono accorto dopo – è che le questioni sono simili a quelle di HereThereWhere: si parla di ombre, di morte, seppur in termini completamente diversi, come due facce della stessa medaglia».

Condividi
Contenuti promozionali

LA CLINICA DELLA FINANZA

CASA PREMIUM

Spazio agli architetti

Casa CZ, nuova luce in una bifamiliare

Il progetto di ristrutturazione dello studio Locarc a San Mauro Pascoli

Riviste Reclam

Vedi tutte le riviste ->

Chiudi