Pian di Stantino, tra pratiche naturali e piccole vigne antiche

Dal 2018 Andrea Peradotto produce anche vini suoi a Tredozio. «Ho vendemmiato in Nuova Zelanda, Svizzera e Francia, ma amo il mio territorio»

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Andrea Peradotto

Sulle colline di Tredozio c’è l’azienda agricola Pian di Stantino, dove l’enologo Andrea Peradotto crea una mezza dozzina di vini artigianali uno più buono dell’altro, affidandosi a un piccolo mosaico di antiche vigne affittate nei territori limitrofi. Andiamo a conoscerlo meglio.

Andrea, qual è la storia di Pian di Stantino?
«Tutto nasce nel 1989 con l’agriturismo omonimo (fu una delle primissime licenze, la n. 4 in tutta la regione), aperto da mia madre e poi gestito da mio fratello Martino a partire da inizio anni 2000, ma il vino abbiamo iniziato a farlo nel 2018, senza tra l’altro possedere alcuna vigna (non siamo una famiglia di agricoltori), ma prendendole in affitto tra Tredozio, Modigliana, Rocca San Casciano e Portico di Romagna, per un totale di tre ettari».

Tu però col vino ci lavori da un po’ di più.
«Sì, lo faccio dal 2005, ma per altri, tipo La Pennita a Terra del Sole, però ho lavorato un po’ anche in Francia, a Bordeaux, poi ho fatto due vendemmie in Nuova Zelanda, quindi dal 2014 mi son trasferito in Svizzera, in Vallese, e ho fatto vino anche là, poi son tornato a casa. Intanto nel 2007 ero diventato enologo. Complessivamente avrò ho fatto una ventina di vendemmie, ma quando ho iniziato a fare il mio vino ho smesso di lavorare per gli altri, troppe responsabilità. La mia prima vigna, presa in affitto Tredozio da un’amica, non è nemmeno un ettaro, poi ne ho affittate altre due molto piccole – tra i 1.000 e i 2.000 mq – tra Rocca San Casciano e Portico da alcuni contadini, addirittura una a Portico è meno di 500 mq, ma è bellissima, nel centro del paese. Era un boschetto, l’abbiamo completamente recuperata. Insomma, non avendo vigne le ho cercate nella mia zona, perché volevo far vino dove son nato, e adesso sono arrivato a lavorarne nove».

Raccontaci un po’ i tuoi vini.
«Ho iniziato facendo un sangiovese che si chiama Ridaccio (una produzione di 1.500 bottiglie) e che mette insieme tutte le vigne più vecchie, ma ora ne faccio anche altri due, il Pian, da Modigliana, che viene da un’unica vigna e tecnicamente è un cru, e il Buscamara, proveniente dalla cima del Monte Busca, a 700 metri, quindi la vigna più alta di Romagna. È vicina al cosiddetto vulcanello di Tredozio, un po’ più in alto. Poi ci sono i bianchi: quello che sicuramente farò sempre è il PianGo!, uno chardonnay da una vigna in affitto vicina a quella del Pian. Da questa faccio anche un ancestrale frizzante, sempre da uve chardonnay, il Collemosso. Inoltre ci sono bianchi che non so se rifarò in futuro, che mi piace pensare estemporanei, tipo l’Inverso, del 2023, in cui c’è il solito chardonnay ma anche del Müller Thurgau (che era già presente nella vigna e che ho acquistato), ma che non potrò fare quest’altr’anno, perché per le frane causate dall’alluvione non siamo riusciti ad accedere alla vigna per fare i vari lavori. Tra le vecchie vigne che avevo ritrovato ci sono anche mille metri di riesling, quindi ne ho fatto 300 bottiglie. È buono ma chissà se lo rifarò. Quest’anno ho trovato una vigna di trebbiano in affitto, a Monte Paolo, sopra Dovadola, a 400 metri, da cui sicuramente farò un vino. Ma coi bianchi so già che saranno sempre progetti a spot, perché vado molto a sentimento del momento».

So che sul PianGo! c’è un aneddoto che riguarda la tua vita personale…
«Ah ah, sì. Nel 2020, quando è nato quel vino, avevo dei problemi sentimentali ed ero un po’ triste, e intanto stavo cercando un nome per il vino. Ne parlavo sempre con una mia amica, finché lei mi propose PianGo!, che univa Pian, la mia zona, alla tristezza ma anche al Go, andare oltre, proseguire. Tra l’altro l’etichetta del PianGo! l’ha realizzata Anna Resmini, che ora fa l’illustratrice per il New Yorker.»

Come vinifichi?
«Per ora non ho una mia cantina, quindi sono in affitto in quella di una mia amica e di conseguenza faccio vino con quello che ha lei, dunque acciaio e cemento, anche se il cemento gliel’ho portato io, perché se potessi farei tutto con quel materiale. Non ho mai usato le botti in legno, perché secondo me i vini, da quei territori alti, il legno lo portano poco, quindi niente cose in barrique o tonneaux. Sui bianchi faccio una pressatura a uva intera, vado in acciaio, c’è fermentazione spontanea, ma nessun contatto con le bucce, preferisco bianchi più diretti, con meno estrazione, più acidità e tensione. Faccio pochissimi travasi, perché utilizzo la solforosa al minimo, lascio un po’ sulle fecce ma non faccio nemmeno bâtonnage, perché se no mi “ingrasserebbe” troppo il vino, mi piacciono le note più sottili. Con i rossi la questione è diversa. Per tutti e tre i sangiovese faccio macerazioni super lunghe, cemento o acciaio, anche di 80, 90 giorni. Mi piace perché ne escono vini già sottili, con un tannino già abbastanza lavorato, visto che la lunga macerazione finisce per riassorbire anche i tannini. Certo, il rischio c’è, perché il picco della macerazione è sui 45 giorni, andando così oltre c’è il pericolo di arrivare a un vino quasi acquoso. Insomma, mi piace giocare sulle macerazioni, ne escono vini dai colori molto tenui, trasparenti, belli».

I tuoi vini dove vanno?
«Un po’ dappertutto. Il mondo del vino naturale – definizione che a mio giudizio non è proprio corretta, l’uomo è invasivo in tutto, il concetto di naturale è molto labile e astratto – è un po’ diverso, ha altri canali di vendita. Io vendo a Lisbona, Madrid, Barcellona, Vienna e Copenaghen, tutto tramite Gitana Wines, perché non ho importatori che mi comprano in quelle città. Per quanto riguarda l’Italia, vendo molto più fuori regione, tipo Roma, Napoli e Milano. Nel ravennate si possono trovare alla Baita e al Clandestino di Faenza, a Ravenna li aveva la Ca’ de Ven, ma non regolarmente. A Russi ce li ha il Bar Centrale».

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