Tradizione, vitigni autoctoni, innovazione: la Romagna di Randi

L’azienda di Fusignano, famosa per la riscoperta di Bursòn e Rambela, ha lanciato una linea di packaging rivolta a un mercato più giovane ed “estivo”

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Massimo Randi

Se si è romagnoli e si ama il vino del territorio è impossibile non essersi imbattuti in una bottiglia di Randi (dal Bursôn Etichetta Nera alla Rambëla in una delle varie vinificazioni), azienda dell’entroterra ravennate che ha fatto della riscoperta dei vitigni autoctoni il proprio cavallo di battaglia. È Massimo Randi, nipote del fondatore, a raccontarci una bella storia tra tradizione e innovazione.

L’azienda Randi comincia ad avere una storia lunga. Come si è arrivati alla situazione attuale?
«Le basi del presente si gettano nel primo dopoguerra, nel 1950. Prima di allora, mio nonno e i suoi fratelli, che venivano da Mezzano, erano mezzadri e lavoravano la terra di un nobile di Ravenna. Poi il nonno si trasferì qui, tra Fusignano e Alfonsine, e diede vita a un’azienda agricola a conduzione famigliare che aveva un po’ di tutto. La frutticoltura, soprattutto, ma alla fine della raccolta di mele e pere si raccoglieva anche quel po’ d’uva che c’era. All’inizio pigiavano loro e vendevano il mosto, raramente arrivavano alla vinificazione».
La svolta per il settore vinicolo arriva però con il tuo ingresso in azienda.
«Dopo la laurea in agraria ho cominciato a occuparmi dei vitigni autoctoni che avevamo, in particolare l’uva Longanesi, denominata Bursôn, e nel 2000 Randi si è associata al consorzio “Il Bagnacavallo” per la produzione e valorizzazione del Bursôn. Il 2001 fu l’anno in cui sono state commercializzate le prime bottiglie provenienti dalla Società Agricola Randi. È comunque nel 2007 che l’aspetto della viticoltura è diventato preminente: abbiamo impostato e creato una rete di vendita, abbiamo anche investito sull’estero, e nel 2018 è nata la struttura di accoglimento clienti (dove ci troviamo a fare questa chiacchierata, ndr) e ci siamo ancora più radicati sul territorio».
Ora, nel 2024, quali sono le dimensioni di Randi?
«Abbiamo 60 ettari, distribuiti nei comuni di Fusignano ed Alfonsine, di cui una gran parte è dedicata alle uve particolari, autoctone, e vendiamo 150mila bottiglie all’anno. Il nostro focus è su quattro vitigni: il Famoso, a bacca bianca, chiamato Rambëla qui da noi; il Longanesi/ Bursôn, il Malbo gentile e il Centesimino, tutti a bacca rossa. Da questi vitigni escono 14 tipologie di vino diverse: fermi, frizzanti e dolci. Poi facciamo anche un pinot bianco, un uvaggio di Malbo gentile e uve Longanesi e un vermouth. Siamo in regime biologico dal 2021, condizione a mio avviso fondamentale per i vini di qualità. Perché la qualità passa per forza dalla sanità».
La questione dei vitigni autoctoni è molto interessante.
«Come ti accennavo, tutto parte con il Bursôn – etichetta blu ed etichetta nera – vendemmiato nel 2001 e commercializzato nel 2004. Poi, nel 2008, siamo stati i primi in generale a produrre e mettere in bottiglia il Famoso (per la produzione di Rambëla Bianca ferma e passito “StraFamoso”), che ancora non era registrato (è avvenuto nel 2009). Probabilmente l’origine del Famoso non è esattamente di questo territorio, ma il primo documento che parla di Famoso qui da noi è del 1400 e lo colloca a dieci km, vicino a Lugo. Entra nel mercato come uva da tavola e paga il dazio. Poi, si sa, non si butta via nulla, e l’uva che non veniva consumata finiva pigiata, dando un vino che aveva sicuramente caratteristiche diverse dal più diffuso trebbiano, ma che aveva un problema, non superava l’inverno, le basse temperature, problema oggi inesistente, con gli inverni miti che ci sono. E questo è il motivo per cui il Famoso è tornato. Oggi questo vitigno non è più una questione strettissimamente locale come il Bursôn, e viene prodotto da Imola a Pesaro. Il Famoso ha qualità sue evidenti, ci sono altri territori, anche più vocati, che lo utilizzano e lo promuovono, e questo è molto positivo. È interessante scoprire le varie differenze e le sfumature in base alle aziende e ai territori, così come succede da tempo con l’albana».
In questi giorni Randi sta presentando una novità assoluta, me ne parli?
«Si tratta della linea Oh Fagianino!, ossia tre nostri vini base – il Famoso frizzante, il Bursôn rosato frizzante e il Famoso fermo – che vengono pensati con un nuovo packaging in lattina. All’estero questa cosa va già da un po’, in Italia esisteva ma non in aziende di dimensioni come la nostra o comunque con lo sguardo rivolto ai vitigni autoctoni e alle riscoperte. Il progetto ha un obiettivo ben chiaro: una clientela più gio vane, ambienti più smart, veloci, dove magari il vino non è al “posto giusto” perché non si può usare il vetro, perché il calice è scomodo o perché il consumatore è di passaggio. Silvia Leonelli, che lavora con noi da tanti anni, ha seguito la realizzazione grafica, devo dire molto accattivante, con una disegnatrice di Bologna, ha curato il nome (il fagiano è il simbolo di Randi, ndr), l’idea e il personaggio, declinato in tre modi, che campeggia sulle lattine. Stiamo parlando sicuramente di un prodotto di qualità – la lattina avrà più o meno il prezzo di un calice di vino in un wine bar – ma la clientela a cui pensiamo è un po’ più spensierata, meno orientata alla classica bottiglia. È certamente un altro tipo di mercato».
Il Fagianino deve praticamente ancora partire ma l’accoglienza sembra già ottima.
«In effetti abbiamo già avuto tanti contatti (mai avuti) fuori dalla nostra area, con distributori da tutta Italia interessati al progetto, il tutto in pochissimo tempo, nemmeno un mese da quando ci stiamo lavorando. Piace il packaging, piace il prodotto. Addirittura, cosa mai successa, ci ha chiamati un grosso distributore per conto di un buyer importante, per avere il Fagianino. Il vino non è un bene fondamentale e soprattutto puoi trovarne quanto ne vuoi e di ogni tipo, quindi di solito siamo noi che cerchiamo i distributori, non il contrario. Invece, in pochissimo tempo da quando abbiamo iniziato la comunicazione (su cui abbiamo investito in maniera importante), abbiamo capito di essere sulla strada giusta».
A livello organolettico, cambia qualcosa tra il vino in vetro e in lattina?
«No, in lattina il vino non perde assolutamente nulla, è solo più sensibile agli sbalzi di temperatura rispetto al vetro, ma basta non esporlo direttamente al sole per lungo tempo. Il vino viaggia in isobarico, cioè in un camion che mantiene la pressione da autoclave, e poi viene confezionato senza più passaggi».

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Vino in lattina: può lasciare perplessi, ma ha un futuro roseo
C’è sempre una prima volta, e per noi è stata l’assaggio della nuova linea di vino in lattina di Randi, “Oh Fagianino!”. Ammetto che l’approccio è un po’ straniante, ma poi, in bocca, tutto torna. La lattina rosa è un rosato frizzante da uve Longanesi (Bursôn), che unisce grande freschezza a un bouquet molto delicato con la fragolina di bosco a dominare. Stesso discorso per la gialla, una Rambela frizzante che va giù che è un piacere, dove le morbidezze del Famoso fanno la differenza. E secondo me è proprio con vitigni molto particolari e riconoscibili come questi che il vino in lattina – comunque già molto diffuso in tutto il mondo – potrà avvicinare anche i tradizionalisti (come il sottoscritto). L’ultima confezione, quella azzurra, è un Famoso fermo, la cui etichetta, non a caso, recita “Fermo e piadina sulla brandina”. Io però li ho assaggiati utilizzando un calice, l’aspetto visivo è irrinunciabile.

La linea Oh Fagianino verrà presentata al Bronson Café di Madonna dell’Albero venerdì 15 marzo dalle ore 18

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