Il valore simbolico nel “sacrificio” del maiale

In Romagna la macellazione era un vero e proprio rito atteso da ogni famiglia contadina

Tradizione del maiale

La praparazione

La macellazione del maiale, in Romagna, è un rito antico, legato purtroppo a un mondo ormai quasi in via d’estinzione. Era una di quelle consuetudini contadine, strettamente legate alla terra e ai suoi frutti, che seguivano il ritmo naturale del tempo e delle stagioni. Era una prassi che assumeva un valore simbolico e rappresentava un momento di sentita aggregazione sociale. Era un giorno di festa lungamente atteso nel quale, finalmente, si raccoglievano i sospirati frutti di mesi e mesi passati a nutrire amorevolmente il maiale, nella certezza che anche da quelle giornaliere attenzioni, dipendesse la bontà e l’abbondanza delle sue carni. Era un evento che i bambini attendevano con trepidazione e paura, consapevoli che assistere all’uccisione del maiale fosse una sorta di iniziazione. Era il sacrificio di un “personaggio” simpatico e grufolante divenuto, nei mesi, membro della famiglia: il momentaneo dispiacere per la perdita era però presto ricompensato dal valore vitale delle sue carni.
Il maiale era un vero simbolo di abbondanza e fertilità tanto che la sua morte, accidentale o per malattia, era vista quale presagio di sventure e carestie.

La tradizione voleva che la macellazione trovasse il momento migliore dalla fine di novembre, dal giorno di Sant’Andrea, fino a circa a metà gennaio, al giorno di Sant’Antonio Abate. La scelta di questo periodo dell’anno era dovuta a una semplice ragione: le rigide temperature raffreddavano e asciugavano più velocemente la carne e di conseguenza favorivano una più veloce lavorazione. Poi c’era anche chi aspettava ancora un po’, fino a febbraio inoltrato perché, con l’uccisione del maiale, si aveva l’impressione che i giorni di festa, dopo quelli del natale, si spingessero un po’ più avanti nel tempo. Chi se lo poteva permettere ne macellava due: uno, il più grosso, prima di Natale e l’altro verso la fine dell’inverno. Quest’ultimo sarebbe tornato utile alla ripresa dei lavori nei campi, verso la fine di marzo o i primi di aprile, durante la zappatura del grano.
Nel giorno prefissato, fin dalle prime luci dell’alba, fervevano i preparativi per il compimento del “rito”: le donne pulivano il luogo del “sacrificio”, di solito un angolo del porticato all’interno della corte, un capannone ricovero degli attrezzi o la “cameraccia”, la stanza della casa, rigorosamente non riscaldata, adibita alle grandi lavorazioni.
Poi arrivava il “norcino”, figura itinerante che viaggiava di casa in casa per offrire la propria esperienza, portando con sè tutti gli strumenti necessari per l’operazione.
Ma il maiale era già morto ed era già stato dissanguato: raccolto in un recipiente di terracotta, il sangue ancora caldo, e arricchito con uva passa e pinoli, avrebbe dato vita al sanguinaccio. L’indomani, già solidificato, veniva affettato e gustato con grande piacere.

Tradizione del maiale

La stagionatura

Tornando alle lavorazioni vere e proprie, si cominciava sezionando le carni, poi si lavoravano quelle per il consumo fresco, quelle che avrebbero sfamato la famiglia nelle prime due o tre settimane: si metteva il fegato nella rete, si tagliava la cotica, si stringevano i ciccioli con le tradizionali ganasce di legno, si preparava la salsiccia da stagionare, quella “matta”, i cotechini, i salami, i “gentili” da mangiare il giorno di Pasqua, il lardo da maturare sotto speziatura, le golette lavorate come il lardo, la coppa di testa, i prosciutti (che non sarebbero stati consumati prima dell’anno successivo), la coppa, lo strutto… si raccoglievano anche il pelo, le unghie e i denti: sarebbero serviti per fare pennelli e bottoni.
Una volta che tutta la carne del maiale era stata lavorata e “confezionata”, dopo che erano stati salati i prosciutti, le coppe e le spalle rimanevano solo le ossa: messe inizialmente sotto sale, anche queste avrebbero trovato un loro ruolo.
Nei primi giorni dopo la macellazione, nelle cucine della pianura, sulle tavole l’azdora avrebbe portato il cervello saltato in padella con olio o strutto, il trippino preparato in umido, la pancetta fresca rosolata a pezzetti in padella e servita con i radicchi di campo (i tipici “bruciatini”), il cuore o il rognone cotti sulla brace dopo una marinatura in olio e vino bianco, la graticola di salsicce o di braciole di lonza nelle famiglie più abbienti.
Poi, finito tutto il “fresco”, una mattina sarebbe andata a dissalare quelle ossa che, assieme alla sola conserva di pomodoro, avrebbero insaporito un intero paiolo di brodo a cui destinare i gratè (i monfettini), il riso o del semplice pane raffermo. Finita la minestra ogni commensale si sarebbe servito la sua parte di ossa per “piluccare” la poca carne rimasta, davvero poca ma saporitissima.

La storia

Simboli, significati e importanza attraverso i secoli

Zoologicamente parlando, il maiale domestico (sus scrofa domestico) è un mammifero artiodattile appartenente alla famiglia dei Suidi, la stessa famiglia del cinghiale. Di natura onnivora, predilige un ambiente ricco di acqua e vegetazione, e ama nutristi soprattutto di ghiande e faggiole. Si ritiene che l’antenato più prossimo del maiale sia proprio il cinghiale (sus scrofa ferus) diffuso in misura considerevole già 10 milioni di anni fa, sia in Europa che in Asia e Nord d’Africa. La sua origine quindi è antichissima.
Le più lontane raffigurazioni dei progenitori del suino, risalenti a 40mila anni fa, sono state rinvenute sulle pareti della grotta d’Altamira in Spagna ma i primi a dar inizio ad una primitiva forma di allevamento, furono i cinesi, oltre 7mila anni fa.
In Europa, invece, ne troviamo traccia molto tempo dopo, nel VI sec. a.C., presso le civiltà dell’Antica Grecia, dove il maiale rivestiva un ruolo importante non soltanto nella sacra sfera del rito religioso, in quanto vittima sacrificale offerta agli dei per ingraziarsi il loro favore, ma anche nell’ambito terreno e “profano” della cucina. La carne di maiale, infatti, era consumata in abbondanza: prosciutti, salsicce, braciole e zampetti erano alla base di gustosi piatti, immancabili in lauti banchetti. Una vera prelibatezza poi era il “ciceone”, una bevanda corroborante e molto apprezzata, da consumare nelle grandi occasioni, ottenuta stemperando nel vino, farina d’orzo, formaggio e miele, accompagnata da pezzetti di carne di maiale.
Ancora, le popolazioni del passato, a partire dai Romani, avevano un’alta considerazione del maiale, tanto da “impiegarlo” come mezzo di comunicazione tra dei e uomini: per gli aruspici etruschi e latini cercavano segni della volontà divina nelle viscere dell’animale.
E ciò valeva anche per Virgilio, che usò una scrofa bianca, da sempre simbolo di fertilità, per indicare ad Enea la spiaggia dove sbarcare.
La moltitudine di riferimenti letterari dedicati ai suini dimostra la loro importanza nella vita quotidiana: dall’Odissea di Omero alle citazioni di Plinio, fino ad arrivare alle descrizioni dedicate da Carlo Levi ai “sana scrofe” nel Cristo si è fermato ad Eboli.
Anche il cinema ha dato il suo contributo nel rendere eterni le tradizione e gli usi popolari legati al maiale: basta citare le scene della macellazione contenute ne l’Albero degli zoccoli di Olmi e in Novecento di Bernardo Bertolucci, nonché quelle del film che nel 1969 inaugurò una nuova stagione del cinema tedesco, Scene di caccia in bassa Baviera di Peter Fleischmann.
Infine, per quanto riguarda la pittura, non c’è secolo e corrente artistica in cui non compaia il suino: dalle prime raffigurazioni dei maiali selvatici del 1100 fino ad Andy Warhol.
Ciononostante, con il diffondersi della cristianità, per via della sue frequenti riproduzioni che l’hanno caricato di una simbologia legata alla lussuria e all’impurità, significati negativi si sono sovrapposti all’immagine immacolata del maiale.

Nel dettaglio

L’allevamento del maiale

Siamo agli inizi del secolo scorso, in una delle tante famiglie contadine della pianura romagnola. Ai primi di febbraio si preparava il porcile, lo “stalletto”, lo si disinfettava con la calce viva, dal soffitto al pavimento, fino a che non diventava tutto bianco. Poi si approntava un giaciglio di paglia fresca, quella dell’ultima trebbiatura e si andava a comperare il maialino: entro i 15 chili, un lattonzolo (latèun). Se ci fosse stata la possibilità di scegliere, la schiena a coppo era segno di buon magro e poco lardo, il posteriore tondo avrebbe dato bei prosciutti e la coda riccia avrebbe allontanato il malocchio. Durante i primi mesi si allevava con gli avanzi di cucina poi, da fine settembre, cominciava l’ingrasso: un mese a zuppa di mais, farina di polenta, ghiande e erba medica bollita e il mese successivo a scarti di patate e farina di orzo. Accudire il maiale rappresentava un impegno quotidiano, costante e inderogabile. E il tutto era sulle spalle della donna di casa, l’azdora!

La ricetta

Ossa del maiale con il sugo

Tradizione Del Maiale 8

Ingredienti

1 kg di ossa di maiale
2 scalogni
80 grammi di guanciale stagionato
500 grammi di pomodori pelati
e schiacciati a mano
Olio extravergine di oliva

Preparazione

In un tegame capiente rosolare lo scalogno tritato con l’olio e poi aggiungere il guanciale. Dopo qualche minuto unire anche le ossa e farle rosolare per bene.
A questo punto aggiungere i pelati schiacciati e il rosmarino, regolare di sale e lasciare cuocere a lungo, su fiamma bassa, mescolando di tanto in tanto.
Se si vede che il sugo tende a restringersi troppo aggiungere qualche cucchiaio di acqua calda.
Dopo circa un’ora e mezza il piatto è pronto: si può gustare come un secondo, semmai accostandolo a delle belle fette di pane casereccio, altrimenti il sugo è perfetto per condire una pasta fatta in casa, tipo le tagliatelle.

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