giovedì
21 Agosto 2025

Parte la raccolta fondi per lo skatepark

Serviranno 5-6mila euro per una piastra con rampe e dislivelli
sul Candiano nello spazio Darsena Pop Up

L’obiettivo della raccolta fondi è mettere insieme 5-6mila euro: comincia oggi, 8 marzo, la colletta per realizzare uno skate park all’interno di Darsena Pop Up, area di quasi cinquemila metri quadrati sulla banchina destra in testa al Candiano che punta a diventare un polo di attrazione per attività culturali e sportive.

Il progetto battezzato Skate Up è realizzato da Officina Meme in collaborazione con il geometra Marco Morigi (vedi articolo correlato) che ha progettato le rampe. Lo spazio sarà gestito da Marco Miccoli, proprietario di Bonobolabo, negozio e spazio espositivo in via Centofanti orientato al mondo skate. E proprio in via Centofanti il 13 marzo è programmato un pomeriggio a ingresso libero di free skate e lezioni gratuite per tutti i bambini che si vogliono avvicinare alla pratica.

L’area di Darsena Pop Up è un’ex zona industriale dismessa (vedi correlati), sarà recuperata attraverso l’uso di container «creando un clima – si legge nel comunicato – che si può respirare nelle grandi città industriali e portuali come Londra, Oporto, Amsterdam». Il progetto prevede l’attivazione di aree sportive innovative, come l’area parkour, arrampicata e beach volley/tennis e basket al fianco di aree culturali, come l’area per i laboratori di arte oppure il fablab per la didattica della cultura digitale (modellazione 3d, programmazione, costruzione di prototipi).

Parte la raccolta fondi per lo skatepark

Serviranno 5-6mila euro per una piastra con rampe e dislivelli sul Candiano nello spazio Darsena Pop Up

L’obiettivo della raccolta fondi è mettere insieme 5-6mila euro: comincia oggi, 8 marzo, la colletta per realizzare uno skate park all’interno di Darsena Pop Up, area di quasi cinquemila metri quadrati sulla banchina destra in testa al Candiano che punta a diventare un polo di attrazione per attività culturali e sportive.

Il progetto battezzato Skate Up è realizzato da Officina Meme in collaborazione con il geometra Marco Morigi (vedi articolo correlato) che ha progettato le rampe. Lo spazio sarà gestito da Marco Miccoli, proprietario di Bonobolabo, negozio e spazio espositivo in via Centofanti orientato al mondo skate. E proprio in via Centofanti il 13 marzo è programmato un pomeriggio a ingresso libero di free skate e lezioni gratuite per tutti i bambini che si vogliono avvicinare alla pratica.

L’area di Darsena Pop Up è un’ex zona industriale dismessa (vedi correlati), sarà recuperata attraverso l’uso di container «creando un clima – si legge nel comunicato – che si può respirare nelle grandi città industriali e portuali come Londra, Oporto, Amsterdam». Il progetto prevede l’attivazione di aree sportive innovative, come l’area parkour, arrampicata e beach volley/tennis e basket al fianco di aree culturali, come l’area per i laboratori di arte oppure il fablab per la didattica della cultura digitale (modellazione 3d, programmazione, costruzione di prototipi).

«Diritto di critica e non diffamazione» Il Centro islamico non avrà i 50mila euro di danni e dovrà pagare le spese di lite alla Life

Due querele penali archiviate e ora la sentenza civile sul caso nato dalle denunce dell’associazione femminista che nel 2012 chiedeva maggiore trasparenza, una gestione partecipata e equità di genere nella gestione della moschea

Fu legittimo diritto di critica e non diffamazione. Così ha deciso il tribunale di Ravenna che ha respinto la richiesta danni da 50mila euro fatta dal Centro di cultura e studi islamici di Romagna (Ccsir) e del suo presidente Ahmed Basel, che gestiscono la moschea di Ravenna, nei confronti dell’associazione Life e della sua presidente Marisa Iannucci che aveva lamentato una presunta mancanza di trasparenza e irregolarità nel governo del luogo di culto costruito alle Bassette. Il giudice ha stabilito il risarcimento delle spese di lite (7.200 euro).

La sentenza del tribunale civile è arrivata dopo due querele penali archiviate. La vicenda nasce nel dicembre 2012 quando in una conferenza stampa la Life e il comitato una Moschea per la città chiedevano maggiore trasparenza, una gestione partecipata e equità di genere nella gestione della moschea, e denunciavano gravi violazioni statutarie – mancata redazione dei bilanci, mancata convocazione dell’assemblea e rielezione delle cariche – da parte del direttivo scaduto.

La sentenza ha stabilito che Iannucci, difesa dall’avvocato Gianluca Alni, esercitò il diritto di critica garantito dall’articolo 21 della nostra Costituzione e dall’articolo 10 della Cedu e che le sue affermazioni avevano un fondamento su documenti.

«C’è grande soddisfazione per un esito sul quale non abbiamo mai avuto dubbi, e l’orgoglio di avere affrontato una battaglia amara ma importante per la crescita della nostra comunità – commenta Iannucci –. A Ravenna è accaduto qualcosa di inedito: un gruppo di donne musulmane ha preso la parola pubblica e ha chiesto nient’altro che la garanzia del rispetto delle regole di questo Paese, per la costruzione di una delle più grandi moschee d’Italia. In città solo poche voci, limitate all’associazionismo e a pochi singoli, hanno speso energie e parole per difendere le nostre posizioni. A loro va tutta la nostra gratitudine per il sostegno morale datoci in questi anni e l’impegno per una soluzione costruttiva del conflitto, che purtroppo non si è potuta attuare».

Sulla vicenda è arrivato il commento anche di Alberto Ancarani, capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale: «La sentenza getta una luce ancora più inquietante, di questi tempi, su chi “ci siamo messi in casa” e su quante bugie, pur di apparire “aperta e inclusiva” ci abbia raccontato l’amministrazione Matteucci sulla comunità islamica e sulla moschea delle Bassette. Per l’8 marzo l’appello più importante che dovrebbe mandare alla stampa il mondo femminista militante dovrebbe essere un ultimatum al mondo islamico sulle proprie enormi lacune nei confronti della condizione femminile. Non farlo confermerebbe che da quelle parti, a prevalere è solo la disonestà intellettuale».

Non si discosta molto la posizione di Ravenna in Comune: «Come mai la giunta Matteucci ha ritenuto interlocutori credibili persone che non erano legittimate a rappresentare la comunità musulmana? Come mai nulla è stato fatto dall’amministrazione Matteucci per accertare se erano vere le accuse di discriminazione nei confronti delle donne e nei confronti dei molti che la pensavano in modo difforme da coloro che arbitrariamente si ritenevano i portavoce della comunità islamica ravennate? La realtà è che si è voluto dare forza e credibilità ad organi dirigenti che non erano legittimati. Non ci stupiamo più di tanto. Matteucci è il sindaco che ha accentrato sicurezza e immigrazione nelle mani di un solo assessore. Un messaggio chiaro, da vero sceriffo, un messaggio che ha voluto premiare i poteri forti anche illegittimamente costituiti e che non va certo nella direzione di una società interculturale laica e rispettosa delle altrui diversità».

«Diritto di critica e non diffamazione» Il Centro islamico non avrà i 50mila euro di danni e dovrà pagare le spese di lite alla Life

Due querele penali archiviate e ora la sentenza civile sul caso nato dalle denunce dell’associazione femminista che nel 2012 chiedeva maggiore trasparenza, una gestione partecipata e equità di genere nella gestione della moschea

Fu legittimo diritto di critica e non diffamazione. Così ha deciso il tribunale di Ravenna che ha respinto la richiesta danni da 50mila euro fatta dal Centro di cultura e studi islamici di Romagna (Ccsir) e del suo presidente Ahmed Basel, che gestiscono la moschea di Ravenna, nei confronti dell’associazione Life e della sua presidente Marisa Iannucci che aveva lamentato una presunta mancanza di trasparenza e irregolarità nel governo del luogo di culto costruito alle Bassette. Il giudice ha stabilito il risarcimento delle spese di lite (7.200 euro).

La sentenza del tribunale civile è arrivata dopo due querele penali archiviate. La vicenda nasce nel dicembre 2012 quando in una conferenza stampa la Life e il comitato una Moschea per la città chiedevano maggiore trasparenza, una gestione partecipata e equità di genere nella gestione della moschea, e denunciavano gravi violazioni statutarie – mancata redazione dei bilanci, mancata convocazione dell’assemblea e rielezione delle cariche – da parte del direttivo scaduto.

La sentenza ha stabilito che Iannucci, difesa dall’avvocato Gianluca Alni, esercitò il diritto di critica garantito dall’articolo 21 della nostra Costituzione e dall’articolo 10 della Cedu e che le sue affermazioni avevano un fondamento su documenti.

«C’è grande soddisfazione per un esito sul quale non abbiamo mai avuto dubbi, e l’orgoglio di avere affrontato una battaglia amara ma importante per la crescita della nostra comunità – commenta Iannucci –. A Ravenna è accaduto qualcosa di inedito: un gruppo di donne musulmane ha preso la parola pubblica e ha chiesto nient’altro che la garanzia del rispetto delle regole di questo Paese, per la costruzione di una delle più grandi moschee d’Italia. In città solo poche voci, limitate all’associazionismo e a pochi singoli, hanno speso energie e parole per difendere le nostre posizioni. A loro va tutta la nostra gratitudine per il sostegno morale datoci in questi anni e l’impegno per una soluzione costruttiva del conflitto, che purtroppo non si è potuta attuare».

Sulla vicenda è arrivato il commento anche di Alberto Ancarani, capogruppo di Forza Italia in consiglio comunale: «La sentenza getta una luce ancora più inquietante, di questi tempi, su chi “ci siamo messi in casa” e su quante bugie, pur di apparire “aperta e inclusiva” ci abbia raccontato l’amministrazione Matteucci sulla comunità islamica e sulla moschea delle Bassette. Per l’8 marzo l’appello più importante che dovrebbe mandare alla stampa il mondo femminista militante dovrebbe essere un ultimatum al mondo islamico sulle proprie enormi lacune nei confronti della condizione femminile. Non farlo confermerebbe che da quelle parti, a prevalere è solo la disonestà intellettuale».

Non si discosta molto la posizione di Ravenna in Comune: «Come mai la giunta Matteucci ha ritenuto interlocutori credibili persone che non erano legittimate a rappresentare la comunità musulmana? Come mai nulla è stato fatto dall’amministrazione Matteucci per accertare se erano vere le accuse di discriminazione nei confronti delle donne e nei confronti dei molti che la pensavano in modo difforme da coloro che arbitrariamente si ritenevano i portavoce della comunità islamica ravennate? La realtà è che si è voluto dare forza e credibilità ad organi dirigenti che non erano legittimati. Non ci stupiamo più di tanto. Matteucci è il sindaco che ha accentrato sicurezza e immigrazione nelle mani di un solo assessore. Un messaggio chiaro, da vero sceriffo, un messaggio che ha voluto premiare i poteri forti anche illegittimamente costituiti e che non va certo nella direzione di una società interculturale laica e rispettosa delle altrui diversità».

«Il Pd vuole mettere le mani sull’unico ente che non prendeva ordini e funzionava: Ap» Le dieci domande della Pigna a sindaco e vice

Il candidato sindaco Bucci definisce Matteucci e Mingozzi i mandanti del siluramento politico di Di Marco e rivolge ai due amministratori una serie di quesiti per fare luce sul porto

«Il Pd vuole condizionare anche l’unico ente di coordinamento e di programmazione che non prendeva ordini, cioè l’Autorità Portuale, che con Galliano Di Marco ha avuto risultati eccellenti in termini di sviluppo e risorse da investire». Prende nuovamente posizione sulle vicende di Ap la lista civica La Pigna che con il candidato sindaco Maurizio Bucci, consigliere comunale del gruppo misto dopo l’uscita da Forza Italia, accusa il sindaco Matteucci e il vicesindaco Mingozzi di essere i mandanti, con la collaborazione del presidente di Confindustria Guido Ottolenghi, del siluramento politico del presidente dell’Autorità portuale finita, come noto, nelle mani di un commissario nominato dal ministero. Per mettere i due amministratori uscenti di fronte alle proprie responsabilità, la Pigna rivolge dieci domande (in fondo all’articolo) alla coppia Matteucci-Mingozzi e attende le risposte.

La Pigna, come già sottolineato da altre forze politiche nell’immediatezza dell’accaduto, fa notare come Matteucci e Mingozzi abbiano saputo della nomina del commissario prima di Di Marco e così come ipotizzato da Alvaro Ancisi (Lpr) fa notare che «la legge attuale prevede il commissariamente solo per particolari casi, che non sono certo attribuibili all’attività dell’Autorità Portuale di Ravenna». Ma i punti in comune con Ancisi finiscono qui perché il resto sono accuse: «È un esponente nazionale dell’Udc, non ha fatto nulla per la riconferma di Di Marco. Qualcuno ha forse sentito Ancisi affermare pubblicamente che Di Marco andava confermato? Non poteva farlo, al punto che ne aveva chiesto in precedenza le dimissioni, aprendo la strada al Pd. Ancisi è intervenuto solo dopo la cacciata di Di Marco, per dire che poteva essere riconfermato, ma si è guardato bene dal caldeggiarne la conferma al ministro Udc Gian Luca Galletti, che conosce molto bene essendone anche stato in lista, al numero 4, per la Camera dei Deputati nelle politiche 2013. Questa è una evidente prova di finta opposizione o di sostegno criptato al Pd».

Domanda n. 1 Di Marco ha ribadito a più riprese di non avervi conosciuto prima della sua nomina. Chi vi ha suggerito di indicarne il nome?

Domanda n. 2 Mingozzi, parlando anche a nome di Matteucci, soltanto un anno fa in risposta a una mia interrogazione circa le dichiarazioni interessate del presidente di Confindustria Ottolenghi sull’azione dell’Autorità Portuale, ebbe a dichiarare che “Di Marco è un dirigente capace, che lavora esclusivamente per il futuro del nostro scalo a tutti i livelli. Quindi per la qualità e caparbietà dimostrate teniamocelo ben stretto”. Per quale motivo allora lo avete cacciato?

Domanda n. 3 In seno al Comitato Portuale di Ravenna il sindaco, assieme a Provincia e Regione, oltre che allo stesso Ottolenghi, approvò il cosiddetto ‘Progettone’, che tra le altre cose prevedeva gli espropri nella logistica 1 sui terreni di proprietà Sapir. Come mai il Comune (che esprime il presidente di Sapir), assieme alla Provincia (che esprime l’amministratore delegato), alla Regione (che esprime un consigliere di amministrazione) e allo stesso consigliere Ottolenghi ha approvato una delibera contro gli espropri dei terreni di Sapir, che invece aveva approvato nel suo ruolo in Autorità Portuale, facendo ricorso al Tar e bloccando così il ‘Progettone’ e i 240 milioni di euro di investimenti?

Domanda n. 4 La Sapir permutò con il Comune relitti di proprietà dislocati in varie parti del territorio, di dimensioni ridotte con alcune particelle addirittura al di sotto dei 100 metri quadrati (addirittura includente sia una particella che doveva essere già di proprietà del Comune, e dimenticata nel passaggio di proprietà in un precedente rogito, sia una che Sapir voleva donare in passato al Comune senza poi procedere al relativo rogito), in cambio di un terreno guarda caso confinante con i terreni di Sapir e facente parte della Logistica 1 da espropriare. La plusvalenza per Sapir fu di 217.000 euro su un’operazione di un valore di 234.000 euro. E detta operazione fu realizzata senza una perizia di un professionista esterno, fidandosi di una stima del dirigente al Patrimonio. Non ritenete sia questo un caso di evidente conflitto d’interesse e quale utilizzo dal 2008 a oggi ha fatto il Comune su questi relitti?

Domanda n. 5 Il progetto di trattamento provvisorio per poter scavare 200.000 metri cubi nella zona dei contenitori, da realizzarsi sull’area acquistata nel 2004 per 14 milioni di euro da Sapir e Pir attraverso l’acquisizione della Società T&C da parte dell’Autorità Portuale (presidenza Parrello), prevedeva una clausola di non concorrenza per 20 anni: quindi per procedere alla sua realizzazione occorre l’autorizzazione di entrambe le società. Sapir l’ha concessa, ma Ottolenghi no, bloccando il progetto. Come giudicate questo ostracismo di Ottolenghi e, dal momento che Pir è socio e membro del patto di sindacato di Sapir, non ritenete opportuno fargli presente che sarebbe utile rilasciare immediatamente l’autorizzazione?

Domanda n. 6 Per quale motivo il Comune ha sottoscritto, e più volte confermato, il patto di sindacato di Sapir con i concorrenti privati quali Pir (ed è pure socio con i concorrenti privati, tra i quali la Setramar di Poggiali), nonostante tutti gli enti pubblici detengano la maggioranza delle azioni, vale a dire il 52%? E per quale motivo poi la stessa Sapir e le società controllate e partecipate dalla stessa sono socie di Confindustria, guidata dallo stesso Ottolenghi, versando quote associative annuali? E a quanto ammontano le quote associative annuali versate a Confindustria da Sapir, Sapir Enginnering, Terminal Container Ravenna e Terminal Nord?

Domanda n. 7 La Pigna è per l’adozione immediata, e non dopo l’esito delle elezioni, della soluzione che non prevede le casse di colmata a mare, così come elaborata dall’Autorità Portuale, al fine di procedere senza indugio al dragaggio del porto, utilizzando velocemente le risorse economiche già stanziate per garantire un futuro di ulteriore crescita e sviluppo. Voi che soluzione intendete sostenere ed entro quale data?

Domanda n. 8 La Sapir ha sempre locato le proprie casse di colmata all’Autorità Portuale, ricavandone entrate milionarie annuali che concorrono all’utile della società e quindi ai dividendi. Le casse di colmata sono discariche che devono essere autorizzate dalla Provincia, anch’essa socia e membro del patto di sindacato di Sapir. Le autorizzazioni erano scadute da anni e la Provincia non ha emesso alcuna autorizzazione al rinnovo, ma Sapir nonostante questo ha continuato a incassare entrate milionarie per casse di colmata abusive dall’Autorità Portuale. Come la definite questa situazione, trattandosi peraltro di soldi pubblici incassati dall’Autorità Portuale? Non ritenete di farli restituire all’ente, che ha subito questo grave danno? E, in caso contrario, esporre la situazione almeno alla Corte dei Conti, se non alla Procura della Repubblica, affinché ne valuti gli aspetti?

Domanda n. 9 Per quale motivo avete fatto in modo di cacciare Di Marco, che nei suoi quattro anni di presidenza ha guidato l’unico ente che coordina un settore dell’economia ravennate a risultare in continua crescita e sviluppo? Volete sfasciare pure questo settore per difendere gli interessi politico economici con Pir e Setramar?

Domanda n.10 Siete gli unici a Ravenna che non si sono degnati non solo di salutare Di Marco dopo averlo immeritatamente silurato, ma che non hanno neppure provveduto a esternare un grazie per il prezioso lavoro e l’opera effettuate. Non vi sembra di aver adottato un atteggiamento offensivo e irriguardoso come rappresentanti della principale istituzione ravennate?

Quelli che si tuffano dalle nuvole

Il riminese Lele Pini ha fondato l’associazione Pull Out alla Spreta
«Siamo stati anche 700 soci da tutto il mondo. Poi un po’ di crisi…»

Finora si è buttato nel vuoto dal portellone di un aereo a quattro chilometri di altezza per circa 15mila volte: «Il primo lancio nel 1981 e dopo tanto tempo c’è ancora gusto a farlo». Il 57enne riminese Emanuele Pini, per tutti semplicemente Lele, è un mostro sacro del paracadutismo sportivo: 28 anni fa ha fondato lui l’associazione Skydive Pull Out all’aeroporto di Ravenna che è arrivata fino a circa settecento soci da tutto il mondo all’inizio degli anni Duemila. «Ho fatto il militare nei paracadutisti a Pisa e poi ho continuato anche dopo. Facevo base per i miei lanci da altre parti e poi ho deciso di aprire a Ravenna con altri 40-50 soci potendo sfruttare una zona perfetta per i lanci, vicina alla costa. Nel periodo di massima affluenza avevamo due aerei da 23 persone l’uno». Poi un po’ la crisi e un po’ l’aumento delle procedure burocratiche hanno fiaccato il movimento ovunque. Oggi i soci con una buona frequenza di lanci, circa duecento all’anno, sono 150, età media 30-45.

Il percorso per conquistare il brevetto è piuttosto breve. Si parte da una visita medica e da una copertura assicurativa per danni verso terzi. Poi il corso teorico da 4-6 ore e una volta superato si passa alla pratica: sette diversi livelli di competenza da raggiungere facendo almeno sette salti, i primi tre accompagnato da due istruttori e gli altri con un solo istruttore. «In due o tre giorni, a seconda del meteo e della risposta fisica dell’allievo, si possono anche fare tutti. Ma l’istruttore dà il via al lancio in autonomia solo quando ha riscontrato una capacità sufficiente. Quindi non è detto che questo avvenga in sette lanci».

Il corso costa circa 1.500 euro. L’attrezzatura, quasi tutta proveniente dagli Stati Uniti, va da 1.500 a 6mila euro (per chi non voglia noleggiarla alla scuola) e ogni lancio 26 euro. Quello in tandem, con cui di solito tutti cominciano per prendere confidenza, invece 170: «Ultimamente è diventato un po’ di moda. A Ravenna facciamo circa 2-3mila lanci in tandem ogni anno. Abbiamo avuto anche un 87enne con due pacemaker autorizzato dal cardiologo. L’immagine di sport estremo non è così vera».

Di lanciarsi non è mai stanco Lele. Ma lo è di fare il gestore: «Ravenna non ti aiuta molto. Solo quest’anno stiamo organizzando qualcosa con il Comune. E basta pensare che il 99 percento dei nostri appassionati viene da fuori città. Non so spiegarmi il motivo ma mi sembra un po’ strano».

Tra i soci e istruttori della Pull Out c’è anche il 39enne ravennate Mattia Fenati (nella foto in alto con tuta gialla e qui accanto sull’acqua) che a giugno giocherà in casa per i campionati nazionali di canopy piloting, disciplina specialistica del paracadutismo in cui ci si lancia per arrivare a sfiorare il suolo a 120 km orari e poi atterrare su uno specchio d’acqua alzando un’onda nel passaggio tra le boe: Fenati è ai vertici italiani (quarto posto all’ultimo campionato). A giugno per la terza volta consecutiva la kermesse si terrà alla Spreta sul pond più grande d’Italia, una vasca d’acqua che ha richiesto un investimento da 30mila euro diventando attrazione per stage e allenamenti dall’estero: «Ho iniziato piuttosto tardi – dice Mattia –. Dopo un classico lancio in tandem fatto per curiosità mi sono appassionato e dal 2009 mi lancio. Nel 2012 la prima gara. Finora ho accumulato 2.500 salti». Ci vuole coraggio ma non solo: «Se sei un professionista con corsi in Italia e all’estero sai che devi fare le cose con attenzione». Adesso Fenati è anche istruttore di volo e cineoperatore per chi vuole un ricordo video del suo primo lancio in tandem. Negli anni le richieste strane non sono mancate: «C’è stato più di uno che ha chiesto di lanciarsi insieme al cane. Ma ovviamente non è il caso, per l’animale».

Quelli che si tuffano dalle nuvole

Il riminese Lele Pini ha fondato l’associazione Pull Out alla Spreta «Siamo stati anche 700 soci da tutto il mondo. Poi un po’ di crisi…»

Finora si è buttato nel vuoto dal portellone di un aereo a quattro chilometri di altezza per circa 15mila volte: «Il primo lancio nel 1981 e dopo tanto tempo c’è ancora gusto a farlo». Il 57enne riminese Emanuele Pini, per tutti semplicemente Lele, è un mostro sacro del paracadutismo sportivo: 28 anni fa ha fondato lui l’associazione Skydive Pull Out all’aeroporto di Ravenna che è arrivata fino a circa settecento soci da tutto il mondo all’inizio degli anni Duemila. «Ho fatto il militare nei paracadutisti a Pisa e poi ho continuato anche dopo. Facevo base per i miei lanci da altre parti e poi ho deciso di aprire a Ravenna con altri 40-50 soci potendo sfruttare una zona perfetta per i lanci, vicina alla costa. Nel periodo di massima affluenza avevamo due aerei da 23 persone l’uno». Poi un po’ la crisi e un po’ l’aumento delle procedure burocratiche hanno fiaccato il movimento ovunque. Oggi i soci con una buona frequenza di lanci, circa duecento all’anno, sono 150, età media 30-45.

Il percorso per conquistare il brevetto è piuttosto breve. Si parte da una visita medica e da una copertura assicurativa per danni verso terzi. Poi il corso teorico da 4-6 ore e una volta superato si passa alla pratica: sette diversi livelli di competenza da raggiungere facendo almeno sette salti, i primi tre accompagnato da due istruttori e gli altri con un solo istruttore. «In due o tre giorni, a seconda del meteo e della risposta fisica dell’allievo, si possono anche fare tutti. Ma l’istruttore dà il via al lancio in autonomia solo quando ha riscontrato una capacità sufficiente. Quindi non è detto che questo avvenga in sette lanci».

Il corso costa circa 1.500 euro. L’attrezzatura, quasi tutta proveniente dagli Stati Uniti, va da 1.500 a 6mila euro (per chi non voglia noleggiarla alla scuola) e ogni lancio 26 euro. Quello in tandem, con cui di solito tutti cominciano per prendere confidenza, invece 170: «Ultimamente è diventato un po’ di moda. A Ravenna facciamo circa 2-3mila lanci in tandem ogni anno. Abbiamo avuto anche un 87enne con due pacemaker autorizzato dal cardiologo. L’immagine di sport estremo non è così vera».

Di lanciarsi non è mai stanco Lele. Ma lo è di fare il gestore: «Ravenna non ti aiuta molto. Solo quest’anno stiamo organizzando qualcosa con il Comune. E basta pensare che il 99 percento dei nostri appassionati viene da fuori città. Non so spiegarmi il motivo ma mi sembra un po’ strano».

Tra i soci e istruttori della Pull Out c’è anche il 39enne ravennate Mattia Fenati (nella foto in alto con tuta gialla e qui accanto sull’acqua) che a giugno giocherà in casa per i campionati nazionali di canopy piloting, disciplina specialistica del paracadutismo in cui ci si lancia per arrivare a sfiorare il suolo a 120 km orari e poi atterrare su uno specchio d’acqua alzando un’onda nel passaggio tra le boe: Fenati è ai vertici italiani (quarto posto all’ultimo campionato). A giugno per la terza volta consecutiva la kermesse si terrà alla Spreta sul pond più grande d’Italia, una vasca d’acqua che ha richiesto un investimento da 30mila euro diventando attrazione per stage e allenamenti dall’estero: «Ho iniziato piuttosto tardi – dice Mattia –. Dopo un classico lancio in tandem fatto per curiosità mi sono appassionato e dal 2009 mi lancio. Nel 2012 la prima gara. Finora ho accumulato 2.500 salti». Ci vuole coraggio ma non solo: «Se sei un professionista con corsi in Italia e all’estero sai che devi fare le cose con attenzione». Adesso Fenati è anche istruttore di volo e cineoperatore per chi vuole un ricordo video del suo primo lancio in tandem. Negli anni le richieste strane non sono mancate: «C’è stato più di uno che ha chiesto di lanciarsi insieme al cane. Ma ovviamente non è il caso, per l’animale».

«Non ci sono prove per una condanna» L’avvocato dell’infermiera Poggiali chiede l’assoluzione dall’accusa di omicidio

Il pm aveva chiesto l’ergastolo per la morte di una paziente 78enne. In aula durante l’arringa il penalista ha provato empiricamente a mettere il potassio nel deflussore…

La sua vita sarà distrutta in ogni caso ma almeno merita una sentenza coraggiosa che è quella di assoluzione perché non ci sono prove che sia stata lei a uccidere: si chiude con questa richiesta, pronunciata con enfasi il 4 marzo scorso in corte d’Assise, l’arringa di tre ore dell’avvocato Stefano Dalla Valle che difende la 44enne Daniela Poggiali, ex infermiera di Lugo accusata dell’omicidio volontario di una 78enne sua paziente l’8 aprile 2014 con una somministrazione massiccia di cloruro di potassio (Cdp). Nell’udienza di una settimana prima la pubblica accusa aveva invece chiesto l’ergastolo con isolamento diurno per un anno e mezzo. L’11 marzo sarà la giornata della replica del pm, controreplica della difensa e poi si aprirà la camera di consiglio per arrivare alla sentenza. Tra le richieste formulate dal legale alla corte figura anche quella di una perizia che accerti la possibilità effettiva di introdurre potassio attraverso la camera di gocciolamento o la valvola di sfogo di un deflussore per flebo, cioè la modalità utilizzata dall’imputata per compiere il delitto secondo l’accusa.

In realtà che non sia del tutto impossibile introdurre potassio con una siringa nel deflussore è stato in parte, paradossalmente, dimostrato proprio dall’avvocato. Che davanti ai giudici nel corso del suo intervento si è giocato anche la carta plateale stendendo un canovaccio sul banco e ha voluto dimostrare empiricamente con una siringa e un deflussore quanto sia difficile il tentativo che per la procura la Poggiali avrebbe compiuto in 5-10 minuti.

In buona sostanza la linea difensiva con cui tentare di evitare il fine pena mai per la donna che si trova in carcere a Forlì da un anno e mezzo si basa sulla mancanza di prove che possano portare alla colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio. E nel corso della ricostruzione presentata ai giudici il tema di fondo è quello di un ospedale e di un reparto e forse di un’Ausl che volevano sbarazzarsi di Poggiali. La tesi del complotto più volte sostenuta sin dalle prime battute anche dalla diretta interessata: «Una sfilata di infermiere a tratti indecorosa, con gente più interessata ad abbinare il tacco al decoltè».

L’avvocato Dalla Valle ha provato a sgretolare le certezze fornite dal sostituto procuratore Angela Scorza – che a un certo punto ha anche chiesto di far spostare di posto tra il pubblico il fidanzato di Poggiali «per evitare i suoi sguardi intimidatori ogni volta che mi volto» – un pezzo per volta sottolineando le contraddizioni e il «pressapochismo» di certi testi, fornendo un quadro clinico della paziente Rosa Calderoni tutt’altro che stabile, ventilando nemmeno tanto velatamente l’inquinamento di alcune prove raccolte in maniera errata, sostenendo che l’intervallo di un’ora e venti minuti tra presunta somministrazione di Cdp e morte è troppo lungo per essere compatibile con un decesso da potassio per somministrazione esogena. Sull’autopsia l’affondo più deciso: i risultati dicono che non è morta per cause naturali ma questo potrebbe essere dovuto all’incapacità di cercare le cause naturali perché si è dato per scontato che fossero cause esterne. Insomma quella presenza di potassi riscontrata non è necessariamente attribuibile a un fattore esterno ma potrebbe essere compatibile con una condizione di iperpotassemia collegata al diabete di Rosa Calderoni.

Ma come facilmente previsto, l’attenzione si è incentrata sul deflussore. La chiave del processo. Non solo perché solo da lì può essere transitato il presunto potassio killer ma anche perché quello agli atti risulta collegato a un ago cannula con Dna maschile. L’ha sostituito, sostiene l’accusa. No, ribatte la difesa: quello era di un altro paziente e in effetti quella mattina un uomo era destinato a terapia di potassio.

Nelle ultime battute dell’arringa ha chiamato per nome, citando a caso, alcuni dei giudici popolari che compongono la corte accanto ai togati. Invitandoli, in virtù di quella fascia tricolore che portano a tracolla e che rappresenta il popolo, a non farsi ingannare «dal fango e dalla melma dei giornali che dovevano solo vendere copie»: il riferimento è alla pubblicazione delle celeberrime foto di Poggiali in posa con un altro cadavere appena deceduto tre mesi prima.

In dieci anni 27 milioni non dichiarati Denunciato venditore di auto e barche

Indagine della guardia di finanza, in tutto quattro persone nei guai per una presunta evasione di imposte da 14 milioni in totale

In dieci anni di business ha commerciato oltre mille veicoli tra auto di lusso (Audi, Bmw, Hummer, Porsche) e moto di grosso cilindrata (Kawasaki e Honda) ma anche imbarcazioni da diporto (velieri e gommoni) senza dichiarare al Fisco circa 27 milioni di euro di ricavi per una presunta evasione di imposte pari a circa 14 milioni di euro (5 di Iva, 8 di imposte dirette e un milione di Irap): la guardia di finanza di Faenza ha denunciato quattro persone, tra cui un 53enne imprenditore (C. R.) faentino a cui erano riconducibili a vario titolo le sei società coinvolte nella presunta frode fiscale. È stata proposta la confisca per equivalente di beni mobili e immobili riconducibili direttamente ai soggetti e alle società oggetto di indagine.

Le imprese coinvolte avevano sede sul territorio nazionale, nella Repubblica di San Marino e nella zona franca di Madeira (Portogallo). In realtà risultavano una sorta di “concessionario virtuale” ed erano domiciliate nell’abitazione di residenza dell’imprenditore.

Il meccanismo scoperto dalle Fiamme Gialle rientra nella cosiddetta “frode carosello” che consiste, in sintesi, in una fatturazione triangolare: il bene viene venduto da un fornitore nazionale a una società con sede fittiziamente posta nella Repubblica di San Marino e nella zona franca di Madeira (Portogallo) in esenzione dell’Iva; successivamente il bene viene ceduto ad una società italiana cosiddetta “cartiera” che non presenta alcuna dichiarazione e lo rivende, sempre sul territorio nazionale, con l’emissione di false fatture, senza mai provvedere al versamento all’Erario dell’Iva che costituiva l’illecito profitto. Le società straniere, di fatto “esterovestite” e la cui sede è stata ricondotta in Italia, creavano così concorrenza sleale nei confronti degli operatori economici del settore che emettono regolare fattura.

Dai carabinieri a denunciare uno smarrimento ma finisce in manette per reati stradali

Il controllo del piantone ha scoperto una condanna pendente sulle spalle di 39enne

Si è presentato alla stazione dei carabinieri di Cervia per una semplice denuncia di smarrimento ed è finito in manette. Per un 39enne, M. V. le iniziali del romeno senza fissa dimora, è scattato l’arresto verso le 12 di oggi, 7 marzo, appena il militare addetto alla ricezione del pubblico si è insospettiato per l’atteggiamento particolarmente trasandato e da un controllo in banca dati ha scoperto che l’uomo, in passato domiciliato a Milano, aveva sulle spalle una condanna a sette mesi di arresto per reati stradali e al pagamento di 4.500 euro di ammenda, passata di recente in giudicato, per la quale la procura della Repubblica aveva disposto la carcerazione. L’arrestato è ora in carcere a Ravenna».

«Commissario Ap è illegittimo e costa 15mila euro al mese per un part time»

I dubbi di Ancisi (Lpr) sulla nomina di Meli alla scadenza di Di Marco
«La legge lo prevede solo in caso di revoca che qui non c’è stata»

Il decreto ministeriale che nomina il comandante della capitaneria di porto di Ravenna a commissario straordinario per l’Autorità portuale della stessa città lascia più di una perplessità a Alvaro Ancisi, capogruppo di Lista per Ravenna in consiglio comunale: «È stato emesso sulla base di una sola legge, la 84/1994 sui porti, che non ammette nessun commissariamento se non in caso di revoca, per gravi inadempienze, di un presidente in carica ma il giorno del decreto Di Marco era cessato regolarmente dall’incarico senza alcuna revoca».

Ancisi è però consapevole che il caso Ravenna non è il primo tra le authority degli scali portuali italiani «ma si presta ad essere impugnata presso la magistratura, tanto più da quando, con il decreto legge 36/2004, le situazioni di stallo, anche per anni, nella nomina dei presidenti di Autorità portuali, per mancato accordo tra il ministero e le Regioni interessate, sono state risolte con la norma del 2004 secondo cui, in caso di tale disaccordo, il consiglio dei ministri può provvedere in solitario».

Insomma per il decano dell’opposizione, un tempo strenuo oppositore di Di Marco, ci sarebbe stati tutti i requisiti per prorogare la permanenza dell’ingegnere abruzzese per altri 45 giorni di prassi concessi in questi casi: «La legge 444/1994, che consente la proroga degli organi di ogni ente pubblico italiano per i 45 giorni successivi alla loro scadenza durante cui possono essere compiuti atti non solo di ordinaria amministrazione ma anche urgenti ed indifferibili, avrebbe consentito di prorogare Di Marco, assicurando “la regolare prosecuzione dell’attività gestionale dell’Ente” per un mese e mezzo. Egli avrebbe così potuto avviare le procedure per i lavori di approfondimento del porto, non più procrastinabili, che il commissario, contrammiraglio Meli potrà cominciare a vagliare, al massimo, dopo le elezioni».

Il rischio, per il consigliere comunale che alle prossime elezioni appoggerà Massimo Alberghini in alleanza con la Lega Nord, è che si perda il finanziamento di 120 milioni concesso dalla Banca Europea degli Investimenti. Che sarebbe una bella beffa anche alla luce di quanto verrà a costare il commissariamento. Ancisi fa riferimento al decreto del ministro Graziano Delrio che «riconosce a Meli un trattamento economico pari all’ottanta per cento del trattamento previsto per i presidenti delle autorità portuali. Dai documenti sul sito di Ap emerge che gli emolumenti per il 2014 sono stati circa 220mila euro». Prendendo per buona quella percentuale dell’80 percento, quella cifra di 220mila euro annui (che in realtà andrebbe rivista al rialzo nel frattempo) e la durata semestrale del commissariamento significa un costo per le casse pubbliche di circa 90mila euro (approssimativamente 15mila euro al mese) per quello che Ancisi non esita a definire un part-time: la nomina a commissario infatti aumenta gli impegni a carico del contrammiraglio Meli «ma non lo solleva dal suo mestiere retribuito che nel 2014, quando egli era capitano di vascello, corrispondeva ad un reddito annuo imponibile di 110mila euro. Nel frattempo, è stato meritatamente promosso contrammiraglio».

Ma ciò che lascia ulteriori perplessità nella riflessione di Ancisi è la scelta del ministero di non sciogliere il comitato portuale che infatti è già stato convocato dal commissario per venerdì 11 marzo. Il timore di Ancisi è che il consesso di venti membri possa rappresentare ancora una zavorra per la funzionalità di via Antico Squero.

Alla luce di tutto ciò Ancisi ne trae una lettura politica della vicenda: «A prescindere dalla persona, la nomina del commissario Meli fuori da ogni regola di corretto comportamento istituzionale ha il senso politico di un accordo interno al Pd, perché del Pd sono tutte le autorità politiche aventi causa sul porto di Ravenna: ministro, sindaco, presidenti di Regione e di Provincia, volto irresponsabilmente a congelare qualsiasi progetto di riscatto del porto senza prospettarne nessuno. Nel frattempo anche le casse di colmata entro le dighe restano sospese». A questo proposito vale la pena ricordare che proprio Alberghini, in occasione della sua presentazione alla stampa, ha annunciato l’imminente presentazione di uno studio commissionato a esperti di settore per avere una nuova visione sul futuro dei dragaggi del porto e trovare una soluzione allo stallo.

Porto, si è insediato il commissario Ap «Lavoro per garantire piena operatività»

Al vertice di via Antico Squero ora il contrammiraglio Meli
Convocata la prima riunione del comitato portuale del nuovo corso

Le prime parole del contrammiraglio Giuseppe Meli, comandante della capitaneria di porto di Ravenna, recentemente nominato commissario straordinario dell’Autorità portuale: «Quest’oggi (7 marzo, ndr) ho incontrato alcuni dipendenti dell’Autorità Portuale e nei prossimi giorni incontrerò anche tutti gli altri per condividere le modalità con le quali lavoreremo nei mesi in cui sarò commissario. L’ente continua a lavorare per svolgere le tante attività che sono indispensabili a garantire la piena operatività di un porto complesso come quello di Ravenna e per venerdì prossimo ho convocato una riunione del comitato portuale, nel segno della massima trasparenza e collaborazione»

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