Fabrizio Bosso e «quel concerto in Corea davanti a 35mila persone»

A tu per tu con il grande jazzista torinese atteso in Romagna con il “Concerto per Jack London”

Fabrizio Bosso 65 Roberto Cifarelli PreviewIl torinese Fabrizio Bosso, 44 anni, è tra i più importanti trombettisti jazz del panorama internazionale. In febbraio tornerà in Romagna (il 7 al teatro comunale di Gambettola e il giorno dopo a quello di Russi) con lo spettacolo Concerto per Jack London, concerto-reading tratto dal racconto The Game, adattato dall’attore Silvio Castiglioni. Un racconto di pugilato al ritmo del miglior cronista sportivo quale seppe essere, tra le tante altre cose, Jack London, e insieme una commovente storia d’amore.

Fabrizio, come è nata questa collaborazione? Sei fan di London? Conoscevi già il racconto?
«Non sono nuovo a collaborazioni del genere, mi piace interagire con letture e spettacoli. Ma no, non conoscevo il racconto che però mi ha da subito molto incuriosito, l’ho studiato, ci abbiamo lavorato: è una storia di cazzotti e d’amore, un po’ come la musica, ci puoi litigare e poi fare l’amore con il tuo strumento. La prima (al teatro della Regina di Cattolica ormai quasi un anno fa, ndr) ha funzionato e ora siamo pronti per riprendere il viaggio…».
Nello spettacolo collabori con il fisarmonicista Luciano Biondini, con cui hai inciso anche un disco, in duo. Qual è la formazione con cui ti senti più a tuo agio?
«Suonare con Luciano mi dà positività, mi fa tirare fuori il meglio di me, essere in due ci offre la libertà di cambiare in qualsiasi momento rotta. E suonare con una fisarmonica in certi momenti è come avere di fianco un’orchestra intera, per via dei volumi, mi piace. In generale non saprei scegliere la formazione migliore, ho bisogno di tutto, di qualsiasi tipo di collaborazione. È come dover scegliere tra club o teatro: l’importante è suonare, ogni occasione, ogni formato, offre un tipo di emozione diversa».
Tu hai collaborato con artisti di svariati ambiti, compreso il pop e il Festival di Sanremo. Diventa necessario farlo, invece, in un campo come quello del jazz dove si rischia forse un effetto stantìo?
«Forse sì, è come dici tu, per avere nuovi stimoli nel jazz servono spunti presi anche da altri generi. Nel mio caso comunque è venuto tutto naturale: ho iniziato a lavorare nel pop o a flirtare con la musica brasiliana perché ne ho avuto l’occasione e per me queste occasioni sono stimoli: collaborare e frequentare altri generi è diventata una sorta di linfa vitale».
Tu sei molto noto anche all’estero e sei spesso in tour fuori dall’Italia. Quali sono le differenze? L’impressione è che i jazzisti italiani in questi ultimi anni siano molto più considerati…
«Sì, ci stiamo iniziando a ritagliare il nostro spazio, sicuramente. Il pubblico, invece, è differente: in Asia c’è molto rispetto, molta attenzione, inizialmente non riescono a trasmettere il calore, ma poi a fine concerto vedi che sono letteralmente impazziti. Mi ha colpito molto, pochi giorni fa, suonare in Corea del Sud davanti a 35mila persone. Un concerto jazz davanti a 35mila persone, in fila per ore per un biglietto, è qualcosa di inimmaginabile da queste parti e l’aspetto più sorprendente è che durante i momenti più silenziosi del concerto non si sentiva altro che il rumore del drone che registrava il tutto dall’alto. In Italia capita ancora di suonare in club sovrastati dalla caciara, ma negli ultimi anni sono molto migliorati i gestori dei locali e gli organizzatori di festival e anche qui l’attenzione del pubblico si è elevata parecchio».
Che rapporto hai invece con la Romagna? Negli anni scorsi hai collaborato con il Ravenna Festival nella rivisitazione della Bohème firmata da Cristina Muti, che esperienza è stata?
«Suono con tanti musicisti, tanta gente diversa, in regioni diverse, ma sicuramente quando torno in Romagna avverto sempre come una leggerezza, in senso positivo, un certo modo di saper prendere la vita. Poi avete una parlata contagiosa. Lavorare a uno spettacolo lirico mi ha colpito soprattuto per il lavoro dei ragazzi del corpo di ballo, degli attori: in quei momenti ti rendi conto del loro sacrificio, dei giorni e giorni passati a provare, a differenza di noi musicisti che invece facciamo un sound-check e poi ripartiamo il giorno dopo».
Anche il tuo lavoro, però, non deve essere sempre semplice: quante date fai in un anno?
«Eh, diciamo che sono sopra le duecento. Duecentoventi circa. La tromba è come se diventasse una parte di te…».
Perché proprio la tromba? E perché il jazz?
«Vengo da una famiglia di musicisti, mio papà era trombettista e ho iniziato quasi per imitazione. Poi, facendo il conservatorio, iniziai ad avere un certo smago della lezione classica mentre big band e jazz sono divertenti…».

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