Quel genio di Corelli. Intervista al violinista Stefano Montanari

«Sia il mio concerto sia quello proposto da Enrico Onofri, sono una bellissima occasione per ascoltare una raccolta di sonate che hanno cambiato il modo di intendere la musica per violino»

Stefano Montanari

Stefano Montanari

Stefano Montanari sarà protagonista di uno dei due appuntamenti del Festival dedicati all’esecuzione integrale delle sonate op. 5 di Arcangelo Corelli. Violinista dedito all’esecuzione storicamente informata, Montanari è una delle figure di spicco del panorama musicale mondiale. Noto come primo violino dell’Accademia Bizantina, da qualche anno ha intrapreso un percorso personale che lo ha portato sul podio facendolo diventare uno dei direttori più apprezzati.

Maestro Montanari, per lei, nato in provincia e cresciuto musicalmente a Ravenna è un ritorno a casa. La ascolteremo, il 27 giugno nella bellissima cornice della basilica di Sant’Apollinare Nuovo, nell’esecuzione dell’opera data alle stampe da Corelli a Roma il primo gennaio 1700. Cosa significa per lei questo ritorno al Ravenna Festival con una pietra miliare della musica violinistica, composta da un ravennate?
«È da tanto che non vengo al Festival, al quale sono molto legato. Per me, Ravenna e Corelli sono un binomio importantissimo: ho ricordi ancora molto vividi di come con l’Accademia Bizantina cercavamo di fare approfondimenti ed indagini sulle opere corelliane all’epoca della riscoperta degli strumenti storici. Ritengo che questa sia una bellissima occasione, sia il mio concerto sia quello di Enrico (Onofri, il 13 giugno) per ascoltare una raccolta di sonate che hanno cambiato il modo di intendere il violino».

Marc Pincherle, biografo di Corelli, affermava che il compositore fusignanese fosse privo di originalità. Qual è la sua posizione in merito?
«Dubito che un compositore poco originale sarebbe diventato così famoso fin da subito. Corelli era una celebrità già ai suoi tempi. Ritengo, piuttosto, che nelle sue pochissime opere date alle stampe egli abbia voluto fermare il tempo fissandone lo stile dell’epoca che in lui vede il massimo esponente. Forse si può pensare che così facendo volesse fermare l’evoluzione dello stile che lui stesso aveva largamente contribuito a creare. D’altro canto quegli stessi stilemi erano utilizzati da molti compositori a lui coevi attivi a Roma, tra i quali, per esempio Carbonelli e Montanari».

L’op. 5 di Corelli è quindi un modo per scongiurare un cambio stilistico?
«In parte è probabile, comunque è innegabile la sua valenza pedagogica. La difficoltà relativa delle sonate è sicuramente dovuta all’idea di un utilizzo a scopi didattici. Inoltre non si deve dimenticare che all’epoca il mercato editoriale vendeva anche e soprattutto ai dilettanti, cioè coloro che suonavano per diletto, che molto spesso non erano virtuosi, quindi le musiche stampate, per avere una grande tiratura, dovevano contenere difficoltà abbordabili anche per i musicisti meno abili».
Il suo disco di queste sonate è stato consegnato alla storia come una delle interpretazioni più felici dell’op. 5.
«Non so se sia così, tuttavia questo plauso è un grande riconoscimento per l’impegno profuso in quel disco, al quale sono probabilmente più legato rispetto agli altri».

Terminata la sua collaborazione con l’Accademia Bizantina, lei si è buttato a capofitto in un’altra avventura, la direzione d’orchestra. Come si uniscono le due anime, quella del direttore e quella del violinista?
«Esse sono un’unica anima che si vota ora allo strumento ora alla bacchetta. L’equilibrio è difficile, ma va trovato. Dirigere richiede grandissimo impegno, ma quando ritorno al violino e ne apro la custodia è come ritrovare un vecchio amico. In qualche occasione riesco ad unire le due anime, come di recente ad Anversa nell’Agrippina di Händel dove, oltre in veste di direttore, suonavo il violino ed il cembalo. Dentro di me c’è anche l’anima del continuista e trovo molto divertente anche sedermi al clavicembalo, o anche di più al fortepiano, per realizzare il basso continuo, specie in Mozart e Rossini».

Classicismo e primo romanticismo. Quindi ha scavalcato il limite del periodo barocco?
«I limiti sono fatti per essere superati e il mio sogno nel cassetto è poter arrivare a dirigere l’Elektra di Strauss e le composizioni di Shostakovich e Mahler. Sento che a breve dovrò passare per Wagner, ma non vedo l’ora».

Concludendo, il prossimo progetto discografico quale sarà?
«Ultimamente non ho molto in simpatia i dischi in studio, l’unica cosa che mi piacerebbe fare sono le registrazioni dal vivo, magari di opere. È un’idea che accarezzo da qualche tempo e che forse a Lione sarà possibile fare nel prossimo futuro».

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