The Good Fellas: «Regaliamo leggerezza, ma per noi la musica è una cosa seria»

Parla il fondatore della celebre swing band: «Il successo degli anni cinquanta? Sono rassicuranti. Dal liscio romagnolo abbiamo imparato tanto»

Thegoodfellas«Abbiamo suonato con James Burton, che è stato il chitarrista di Elvis Presley; ricordo ancora quando Ben E. King si è girato verso di me sul palco e mi ha chiesto di attaccare “Stand by me”, uno dei due riff più famosi della storia dell’R&B, che avrà anche solo tre note, ma se ne sbagli una davanti a chi l’ha scritta… E poi gli spettacoli con Aldo Giovanni e Giacomo, a fine anni novanta e tre anni fa per il loro “Best of”, tour da 300mila biglietti venduti, che ti fanno sentire di aver raggiunto il massimo. E ancora, il Festivalbar con gli Articolo 31, dove siamo stati gli unici a suonare dal vivo su richiesta di J-Ax, che insisteva a dire agli organizzatori che sapevamo suonare da dio. Poi tutti in pizzeria con Alessia Marcuzzi e Fiorello…».

Non può che essere sterminato l’album dei ricordi del forlivese Stelio Lacchini, in arte Mr. Lucky Luciano, da trent’anni nel mondo della musica, dal 1993 alla guida dei The Good Fellas, unanimemente considerati “la” swing band italiana, con radici ben salde in Romagna. L’8 novembre apriranno la stagione dello storico Teatro Socjale di Piangipane e due giorni dopo, domenica 10 (al pomeriggio) saranno all’America Graffiti di Forlimpopoli ad accompagnare il cantante inglese Danny Fisher.

«Al Socjale torniamo sempre con grande piacere, è uno di quei luoghi che chiamiamo “casa” – dice Lacchini –, uno dei circoli che resistono in quest’epoca in cui stiamo vivendo una grossa disaffezione verso la musica dal vivo, a eccezione forse solo dei grandi eventi».

Avete in programma un concerto speciale per l’occasione?
«No, niente di particolare: abbiamo quasi trent’anni di esperienza e non ci sono nuove registrazioni in vista. Abbiamo appena finito l’ennesima estate impegnativa al Summer Jamboree (il grande festival internazionale dedicato agli anni cinquanta di Senigallia, dove i Good Fellas sono house band, ndr) con nove concerti in dodici giorni, abbiamo voglia di rilassarci e di goderci questo momento…».

Come si spiega il successo del revival degli anni cinquanta?
«L’iconografia generale è molto pulita, anche i ribelli alla Marlon Brando avevano una bella giacca, i jeans non erano stracciati, le automobili erano brillanti dopo la guerra, non c’era la droga che girerà poi a Woodstock e negli anni sessanta e settanta. I cinquanta hanno un’immagine rassicurante ed è una delle ragioni per cui continuano a tornare, anche se c’è grande confusione, molti non sanno di cosa si parla realmente».

Una moda molto legata anche al ballo…
«Il vero swing revival è dell’inizio degli anni novanta, adesso più che altro infatti il revival è ad opera delle scuole di ballo, che si concentrano poco sulla musica. A volte siamo costretti ad accettare serate su misura dei ballerini, con un repertorio “calmierato”. Ma noi non siamo un juke box, noi pensiamo ancora a uno spettacolo come quello di Louis Prima, di Frank Sinatra e del Rat Pack, a una musica indirizzata a tutti, non solo ai ballerini. Come nel caso del concerto del Socjale…».

Una forma di intrattenimento.
«Noi facciamo orgogliosamente intrattenimento, vogliamo regalare un paio d’ore leggere, prendendo comunque la musica molto seriamente. Solo su noi stessi ci piace scherzare durante le serate…».

Qual è il vostro pubblico? C’è stato un ricambio generazionale?
«Fortunatamente ci sono persone che ci accompagnano dall’inizio della nostra avventura. E poi è chiaro che ci sono anche nuove generazioni. Mi ricorderò sempre un concerto a Bertinoro con una delle formazioni più piccole che porto avanti parallelamente ai Good Fellas (King Lion & the Braves e The Lucky Lucianos, ndr), con un repertorio sempre di musica che indicativamente va dal 1945 al ‘64, in cui ci siamo trovati centinaia di ragazzini sotto il palco a ballare. Alla fine del concerto sono venuti a farci i complimenti dei 15enni, 16enni. Ecco, quando tu riesci a far scoprire un certo repertorio a dei ragazzini, magari spingendoli ad approfondirlo, a far loro capire che certa musica è nata sull’onda della ribellione al razzismo, alle diseguaglianze sociali, vuol dire che hai fatto il tuo lavoro».

Per certi versi potete ricordare le orchestre di liscio, che rapporto avete con la musica folkloristica romagnola, vi ha influenzato?
«Beh, intanto va detto che siamo in grado di “girare” valzer e polka senza problemi. Abbiamo un grande rispetto per quello che è stato il liscio in questa terra, uno dei nostri maestri è stato Germano Montefiori. Abbiamo imparato a essere orchestrali da quella gente lì. Abbiamo imparato il rispetto per il pubblico, a vestirci in un certo modo, a non fare gli spacconi, dare importanza al mestiere del musicista. Quindi sì, la Romagna ci ha dato molto».

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