Concerti e musica dal vivo, cinque cose che potrebbero succedere nell’immediato

 

Concerto Vasco

Fan accampati prima del concerto di Vasco Rossi al Modena Park

Una volta vedevo il telegiornale e stavano intervistando le persone che stavano davanti al concerto di Vasco Rossi, quello mitico di un paio di anni fa, Modena Park, presente? OK. Insomma, stavano intervistando i ragazzi che stavano davanti ai cancelli, c’era già un bel po’ di gente, bivaccavano assieme – più o meno. Il concerto si sarebbe tenuto il weekend successivo. Erano lì con giorni di anticipo. C’era un’intervista al primo della fila, un ragazzo da poco uscito dalla maturità che come vacanza-regalo aveva chiesto ai genitori di potersi recare nel luogo dell’evento, non so, due settimane prima – bivaccavano lì, avevano le tende e tutto l’occorrente, difficile dire cosa come chi. Una bella gioia sfatta nell’aria, sembrava – boh – un bel giorno d’estate. Probabilmente quella sera si sarebbero riuniti tra quelli dei primi giorni e i nuovi arrivati e avrebbero cantato le canzoni del Blasco con la chitarra di qualcuno, avrebbero confrontato tatuaggi e cimeli e stigmate varie provenienti dai vecchi tour e qualcuno si sarebbe innamorato con qualcun altro. Non ho idea di come avrebbero fatto a gestirsi una dieta adeguata, cacca, pipì e bisogni vari, docce, lavare i panni – così ho pensato che il servizio fosse fasullo. Ma perché dovrebbero raccontare che ci sono persone accampate davanti al concerto di Vasco se non fosse vero? Ecco.

MaxresdefaultEcco, se questa cosa dovesse sparire a causa del coronavirus, non mi mancherà. Mi viene naturale pensare a tutte le angherie a cui sono stato sottoposto in decenni di concerti, tra cui qualcuno anche molto grosso. Ho dovuto prendere treni, aerei e battelli, viaggiare nei cassoni di certi camioncini, dirigermi verso aree scarsamente popolate e sfornite di acqua corrente, pernottato in tende-camere-alberghi dove oggi non metterei piede, pisciato dentro a cessi chimici, sfidato sole cocente, sfidato bombe d’acqua, preso insolazioni, preso sfoghi alla pelle. Nei posti al chiuso, quelli piccoli, anche peggio. Non riesco a togliermi dalle narici il tanfo del seitan piastrato che riempiva l’aria dei locali in cui si svolgevano certi festival freak-punk, il fetore rancido degli squat a cui avevano inchiodato le assi alle finestre per evitare che i vicini mandassero gli sbirri per il casino, la coltre di fumo in posti col soffitto basso prima del divieto, il puzzo insostenibile di sudore umano nei mesi immediatamente successivi al divieto. Ho assistito a concerti in spiaggia alle sei della domenica mattina e a sleep-concert di musica ambient alla stessa ora. Ho bevuto gli alcolici più merdosi in commercio in quantità insensate, riducendomi a vomitare dentro cessi in cui l’acqua non funzionava e cacare all’aperto dietro i locali. Ho subìto docce di birra e lambrusco da parte di avventori festanti, preso un sacco di botte per stare quanto più possibile vicino al palco, schivato gente che faceva stagediving con in mano un coltello – o così sembrava. Mi sono trovato in mezzo a risse con cui non c’entravo assolutamente un cazzo, rischiato un uno-contro-uno col fidanzato ubriaco di qualcuna con cui stavo parlando. Ho dormito sui divanetti di certe discoteche in cui stava suonando il mio gruppo della vita – ero stanco. Ho visto madri 45enni attaccate alle transenne di concerti hardcore violentissimi per proteggere la figlia, salvate misericordiosamente dai buttafuori. Ho visto indierocker ciccioni organizzare una rissa con dei buttafuori, chiamare un pugno di amici per vincerla, vedere arrivare un pugno di amici del buttafuori, assistere a pestaggi punitivi. Ho mangiato piadine con la salsiccia in chioschetti a cui non avrebbero consentito di distribuire alimenti gratis nemmeno in Afghanistan nel 1984.
Per tutte queste cose ho pagato una quantità di soldi imbarazzante, senza contare gli effetti sul mio corpo – intossicazioni alimentari, diarree, febbri alte, lividi, cicatrici, mal di schiena, aliti cattivi, coma etilici. Il corpo sopporta un certo tipo di stress, e poi non ne sopporta più. Gli sfoghi nella pelle e le cicatrici e tutto quel vomito nei locali sono il live-tweeting di tutte le volte che hai chiesto al tuo corpo qualcosa che non era in grado di darti – non quel giorno, non dopo tutto quel che gli avevi chiesto prima. Per qualche motivo, alcune delle esperienze più stressanti e controintuitive a cui prendiamo parte vanno incontro a un bizzarro contrappasso e diventano pezzi essenziali di un bildungsroman che ci ha reso le persone che siamo, a grandissime linee come succede a quelli che rimpiangono la fine del servizio militare.


Qualche settimana fa giravano progetti più o meno deliranti legati a concerti drive-in. Mi è capitato perfino di vedere un minuto di filmato in cui succedeva davvero, in Germania: decine di auto in griglia mentre un dj sparava musica da un palco come a un concerto vero – più o meno. Numerosi miei contatti commentavano in massa che “stiamo scivolando in massa dentro una puntata di Black Mirror”. Posso capirlo, anzi direi che sono in sintonia al cento per cento con lo sbigottimento di veder succedere cose di questo tipo – voglio dire, la cazzo di alienazione. Razionalmente, a dire il vero, penso a quante volte ero di fronte a un palco e avrei desiderato di essere all’interno della mia macchina – seduto comodo, freno a mano, bibita nell’apposito vano e se va male mi sparo una pennica.
Astronomical Travis ScottPiù in generale: da quanto tempo ascoltare la musica è diventata un’esperienza fisica da bolgia dantesca? Così a spanne, direi che il concetto sia stato introdotto nei tardi anni sessanta. 50 anni, grossomodo. La domanda è: come facevano prima? Ci si arrangiava alla grande. Le orchestrine di liscio si facevano trovare nella piazzetta di un paese e magari la gente portava la seggiola da casa. Pochi giorni dopo lo scandalo dei concerti drive-in è arrivata la notizia del successo epocale di un concerto di Travis Scott su Fortnite – decine di milioni di persone connesse all’evento, una performance interattiva perfettamente integrata all’interno dell’applicazione, un’esperienza di sapore molto più moderno e edgy (non so cosa significhi). Qualcuno continuava a gridare alla cazzo di alienazione, qualcun altro lodava la capacità di Travis Scott e della sua cricca di adattarsi al periodo storico, alle contingenze e ai nuovi media. È probabile che Scott, potendo scegliere tra Fortnite e palazzetti, avrebbe continuato coi secondi, o fatto entrambe le cose.


La consegna per questo articolo è di immaginare una specie di futuro possibile per la musica live – come torneremo a vedere concerti, quando torneremo, cosa sarà. Non ho voce in capitolo sulla decisione, e non ho un’attività commerciale che dipenda in maniera fondamentale dalla ripresa dei live, e ho solo una vaga idea di quali e quanti siano i problemi che gli addetti ai lavori, le associazioni di categoria e i musicisti in prima persona sono costretti ad affrontare di questi tempi. Penso che sarebbe stupido, da parte mia, cercare di fornire soluzioni a problemi che non ho. Da frequentatore, com’è ovvio, sono molto interessato alla possibilità che i concerti riprendano in pompa magna. Mentre scrivo arriva notizia della prima data da segnare in rosso sul calendario, da mesi a questa parte: il 15 giugno, secondo certe regole, sperando che nel frattempo non si ricada nel baratro (il baratro, concedetemelo, ci ha veramente rotto le palle).
L’unica cosa che so per certo, avendola osservata per decenni, è questa bizzarra schizofrenia dell’ascoltatore occidentale nei confronti della musica. Quella che ci impone di lamentarci selvaggiamente di ogni microscopica evoluzione/cambiamento/problema che si profila all’orizzonte, e che contemporaneamente ci rende così capaci di adattarci a questi cambiamenti, di abbracciarli e di fare tutto quel che è in nostro potere per avere più musica in più luoghi. Non riusciamo, fisicamente, a starle lontano – e quindi ci staremo. Su questa base, mi sento titolato a formulare alcune ipotesi terra-terra in merito a come cambieranno i concerti nei prossimi mesi; niente strategie, niente suggerimenti, solo impressioni legate a scenari che mi sembrano inevitabili. Cercando di stare al mio posto, mi concentrerò sull’impatto di questi cambiamenti su noi che la musica l’ascoltiamo. Gli assunti da cui si parte sono i seguenti: le persone che ascoltano la musica vogliono continuare ad ascoltarla; le persone che suonano la musica vogliono continuare a suonarla; i locali che organizzavano concerti vogliono continuare a organizzarli. Se siamo d’accordo con questi assunti, ecco cinque cose che potrebbero succedere nell’immediato.

1 I concerti saranno più modesti. Un numero limitato di paganti e la quasi-impossibilità di gestire eventi con mesi di anticipo imporranno di limitare al minimo gli orpelli per la ripresa dei concerti. Il concertone allo stadio col muro di ledwall e i visual e le coreografie pirotecniche avrà un costo insostenibile. È ragionevole pensare che le situazioni più snelle – gruppi indie di tre elementi, rapper, dj e simili – potranno gestirsi su costi più contenuti, porre meno problemi a chi organizza e suonare con più facilità. È ragionevole pensare che chi ascolta si concentrerà meno sull’epocalità della singola esperienza, alla Modena Park, e più sul fatto che la sua fame di musica dal vivo possa essere in qualche modo placata.

2 Vedremo perlopiù artisti locali. Del doman non v’è certezza e i grossi artisti internazionali non s’imbarcheranno in tour per qualche tempo, direi. Toccherà accontentarsi di veder suonare gente della zona: artisti magari più piccoli, con poche pretese e un cachet che non debba coprire le spese della trasferta. Non è escluso che a lungo andare nascano nuovi gruppi, nuovi progetti artistici, persone più cariche. Da parte nostra si richiede solo di fare un briciolo di attenzione in più e un briciolo di selezione in meno – la buona notizia è che la Romagna è musicalmente benedetta da Dio: strapiena di roba buona, decisamente eclettica nei generi, relativamente priva di paraocchi e decisamente orientata a stare bene.

3 Più concerti, più piccoli. Beh, c’è la possibilità che dovendo rispettare distanze, capienze e regole varie, i locali si sentano spinti a organizzare eventi meno costosi e con più frequenza. Potenzialmente questo può significare più possibilità di scegliere, ogni sera, tra più ipotesi – una cosa che ci permetterà di girare di più, soddisfare appetiti diversi, gestire la nostra quotidianità in modi molto differenti da quelli che adottavamo nel passato. Non è impossibile che lo stesso posto organizzi due concerti lo stesso giorno, che lo stesso gruppo si possa impegnare in due set consecutivi, che più locali provino a imbastire concerti in giardino, e via di questo passo.

4 Ogni metro quadro sarà importante.  Non so se vi è capitato di ripensare casa vostra, in questi due mesi; io l’ho fatto. Ho utilizzato angoli di terrazzo striminziti che non avevo mai nemmeno considerato; ho fatto il trebbo di quarantena coi vicini mettendo una sedia davanti al vialetto d’ingresso, e tante cose di questo genere. Lo stesso, immagino, succederà alle nostre città una volta familiarizzato con la riapertura. Angoli delle strade, piazzette, viottoli; concessioni più generose da parte delle amministrazioni, per combattere un pochetto la crisi. I locali si prenderanno qualche stradello, ed è probabile che qualcuno possa avere in mente di organizzare qualcosa – piccoli concerti, magari acustici, magari improvvisati. Qualcuno suonerà nell’aia di qualcun altro, in mezzo a gruppi di amici, nei limiti del consentito. Se avessi un gruppo mi imbarcherei in un tour estivo delle grigliate in casa della gente – amici e parenti, case di campagna, piscine in collina; dieci spettatori, due microfoni e via andare, pagamento in salsicce e melanzane grigliate. Voglio dire, perché no?

5 Ogni concerto sarà importante. Si chiacchiera tanto sul dubbio che la pandemia ci abbia cambiato irreversibilmente o ci abbia fornito la prova definitiva di quanto siamo impermeabili al cambiamento. Io non lo so come sarò – mi sento più pigro, più spaventato, meno propenso a buttarmi nelle situazioni. Ma  avete presente l’indolenza annebbiata con cui di tanto in tanto ci capita di affrontare l’ennesimo folksinger del giovedì sera? Beh, quella per un po’ non ce l’avrò. Quando sarà, accoglierò con entusiasmo e trasporto qualunque cantante-cantautore-musicista-gruppo-dj-rapper o attore che si prenda la briga di venire a suonare per me. E per un po’ di tempo spero di riuscire a mantenere quell’entusiasmo e quel trasporto.

E questo è quanto. I problemi del settore rimarranno, com’è ovvio. Quelli degli addetti ai lavori, quelli della povertà che sta per arrivarci addosso, quelli dei musicisti che prima facevano un lavoro e oggi sono disoccupati. E non ci saranno persone accampate fuori dal concerto di Vasco il giorno prima, e forse non ci saranno docce di birra o bagni a mezzanotte o limoni duri o risse con la security, non ci saranno reunion con gli amici che incontri solo al festival estivo, non ci saranno esperienze sceniche da raccontare ai nostri nipoti e non ci sarà il gruppo della mia vita nel giardinetto sotto casa. Mi accontento del fatto che ci sarà la musica. Perché se in due mesi di quarantena ho avuto una conferma su quello che è la mia vita, è che la musica non può non esserci.

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