Elena Bucci, e il teatro come spazio di libertà

da coltivare, condividere e ribaltare

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Conversazione con l’attrice russiana che ha vinto il Duse e l’Ubu e Hystrio Act

Nello stesso anno ha ricevuto i due più prestigiosi premi per un’attrice teatrale in Italia: il Duse e l’Ubu a cui si è aggiunto, a fine 2017 (qualche settimana dopo che è stata realizzata questa intervista) anche il premio Hystrio Act. Elena Bucci da decenni calca le scene mondiali con le produzioni che nascono nella piccola Russi, dove lavora con la compagnia che insieme a Marco Sgrosso ha fondato nel 1993: Le belle bandiere. Prima e durante ha lavorato con Leo de Berardinis a Bologna. E il suo impegno sul territorio non si è mai fermato all’interno del teatro, ma è uscito in strada per lottare per il recupero di spazi e  Abbiamo pensato che fosse giunto il momento, anche per noi, di farle un’intervista a tutto tondo per conoscerla meglio, cominciando dalla sua infanzia.
Da che famiglia vieni? Che studi hai fatto?
«Vengo da una famiglia contadina. Il teatro, come ho scoperto solo dopo, ha moltissimo a che fare con l’agricoltura».
In che senso?
«Per coltivare servono grande umiltà e grande ascolto. Sapere che semi piantare e quando farlo; com’è il tempo, guardarti attorno, stare attenti a tutto. Provi e fai un’ipotesi, ma non è affatto detto che il tuo progetto andrà bene. Basta un lampo, una grandine e tutto può essere distrutto in un attimo. Si ricomincia da capo. Forse mi riferisco ad un’agricoltura oggi anacronistica, ma che ho ancora ben presente».
Quella dei tuoi genitori?
«Forse più dei miei nonni. I miei genitori sono stati i primi della famiglia a laurearsi. Entrambi. Era una cosa molto innovativa per il tempo, soprattutto per una donna. Erano insegnanti innamorati del loro lavoro. Mio padre, Adelmo, era appassionato di cinema e aprì il primo cineforum di Romagna, a Bagnacavallo. Mia madre, Anna Maria, ha nutrito decine di famelici teatranti in Romagna e fuori. Ma la scelta del teatro non fu bene accolta».
Per quale motivo?
«All’inizio fu una tragedia. Ho studiato al Liceo Classico di Ravenna, avevo una media altissima. Mi sono iscritta a Medicina, poi a Lettere, sempre con successo. Alcuni docenti già mi parlavano di carriera universitaria. Si aprivano belle prospettive. Nel frattempo, di nascosto, frequentavo una scuola di teatro».
Non avevi detto niente ai tuoi?
«Il primo anno no. Poi lo dissi… Un disastro. Ma avevo già fatto qualcosa anche prima. Le tipiche esperienze di parrocchia. Per me è stato un fattore di grande libertà: non c’era niente a Russi. Appena una suora un po’ talentuosa diceva “facciamo il balletto!”, andavo subito. E i nostri compagni di scuola dalla galleria gridavano “uccidetele!” e ci lanciavano le cose, ma noi impavide sul palco… E poi i ragazzi della compagnia I Guitti che guidavano noi incoscienti. Per me il teatro è stato fin da subito una grande gioia. Il coraggio, il riscatto, la vittoria contro la timidezza, il gioco di squadra».

«Anche in agricoltura serve grande umiltà e ascolto. Basta un lampo, una grandine e tutto può andare distrutto in un attimo»

È questo che insegna il teatro?
«Una delle cose più dolorose che stiamo vivendo, quasi senza accorgercene, è la trasformazione delle nostre relazioni politiche e civili in forme cristallizzate; non si tratta più di buona educazione, ma di pura inibizione, paura del confronto. Paura che la propria idea non sia conforme. Il teatro aiuta proprio in questo: a individuare il pregiudizio. Concretamente, dimostra quanto sia stupido, limitante, falso, e come crei infelicità. E perciò proprio ora dovrebbe tornare dentro le scuole: per allenare all’apertura e allo spostamento dei punti di vista, del pensiero, delle emozioni».
Eri impegnata politicamente?
«Non ho mai fatto parte di gruppi, ma sono sempre stata una grande rompiballe. Se mi guardo indietro, capisco che la questione della relazione col potere, dell’essenza della democrazia, del significato dell’impegno civico sono stati temi di riflessione importanti per me, fin dai primissimi laboratori teatrali che ho guidato a Bologna, all’interno di progetti creati dal mio maestro Leo de Berardinis. Nella necessità del lavoro concreto, oltre a scoprire di poter essere regista, cosa che non avrei mai immaginato, trovai anche quelle decisive linee di ispirazione».
Come hai tradotto in pratica quell’ispirazione?
«Quando tornammo in Romagna, fondammo la compagnia di teatro “Le belle bandiere” e cominciammo il lavoro di recupero per il pubblico degli spazi a Russi: Palazzo San Giacomo, la Chiesa in Albis, l’Ex-Macello, la parte superiore della Biblioteca, il Teatro Comunale… Non mi resi conto di fare una battaglia politica, ma ora lo vedo bene. Penso al “Requiem per un teatro”: una processione durante la Fira di Sett Dulur di 70 persone, con carro funebre, stendardi, cavalli… La ricerca intorno al teatro e le riflessioni sulla politica erano naturalmente intrecciati in un solo gesto creativo che diventava spettacolo. Anche ora non riesco a distinguere il lavoro artistico dall’impegno civico e politico – e anche quando tratto temi in apparenza lontani, la spinta iniziale è sempre la stessa e prima o poi si rivela».
Hai definito Leo de Berardinis “maestro di inquietudine”. Cosa ti ha veramente insegnato, pensandoci adesso?
«Inquietudine, dubbio, assenza di moralismo. E coraggio. Praticare insieme rigore e libertà. Osare grandi progetti senza dimenticare dettagli e particolari. Solo attraverso la tecnica e lo studio puoi davvero dire di essere libera. Altrimenti il rischio sono lo spontaneismo, l’inconsapevolezza, la regressione e la ripetizione di schemi già conosciuti. La tecnica ti toglie le catene. Allenarsi per afferrare quel bagliore che sfugge alle parole e genera scrittura, storie, teatro».

Elena Buccijpg01 Come sono nate Le Belle Bandiere?
«Era l’inizio degli anni ’90. Mi chiamò l’assessore Emilio Vita, sapeva che avevamo creato uno spettacolo in autonomia nello Spazio della memoria di Leo a Bologna e mi chiese di portarlo a Russi. Poi il progetto si è allargato e abbiamo realizzato un laboratorio permanente e una rassegna di artisti che non si erano ancora visti nel nostro territorio, che io e Marco Sgrosso abbiamo chiamato “Le belle bandiere”. Tutto è partito da qui».
Il 2016 è stato per te un annus mirabilis: hai vinto i due premi teatrali più importanti del panorama italiano, l’Ubu e il Duse. Che tipo di responsabilità porta il premio?
«Grande. La responsabilità è sempre grande comunque, e riguarda non soltanto me, ma i miei maestri, i miei allievi e il teatro stesso. Mi piace pensare che questo premio non sia stato assegnato soltanto a me, ma ad un modo di vivere il teatro non troppo presenzialista. Che non fa riferimento solo alle grandi città o ai luoghi di appartenenza, ma nomade. Leggero, perché non ho mai costruito un impero o un potere. Mi piace che in un’epoca come questa il premio vada a una natura come la mia, perché qualità che spesso vengono lette come errori di calcolo e di costruzione, come eccesso di anarchia, possono venire intese anche come valori».
Hai dedicato molta attenzione a figure femminili, come la Duse e la Betti. Cosa ti hanno insegnato? Esiste una questione femminile nel teatro?
«Non credo che i due generi, maschile e femminile, siano stati e siano del tutto equilibrati, sia nella vita che in teatro. Sia come presenze sulla scena, che come scritture e regia esiste ancora una certa prevalenza maschile. E pur non dichiarandomi femminista, noto gli squilibri di potere. Mi sono concentrata su queste figure femminili perché mi pare che non siano state abbastanza ascoltate nonostante abbiano molto da dire alla nostra epoca e perché mi sono state maestre. Dalla Duse ho imparato il coraggio, la necessità della vita nomade, la capacità di sottrarsi alla vanità per non diventare “specchietto per le allodole” per gli intellettuali e i primi teatri stabili. Iridescente nei diversi ruoli teatrali come spesso sanno essere le donne anche nella vita: regista, attrice, interprete, organizzatrice, maestra. Così come la Betti non è solo “musa di Pasolini”, ma anche una donna originale, fuori dalle regole, dal talento appassionato, con il coraggio di essere insopportabile, antipatica e violenta per amore dell’autenticità».

«Una delle cose più dolorose che stiamo vivendo è la trasformazione delle nostre relazioni politiche e civili in forme cristallizzate, di inibizione»

Hai recitato in film internazionali: penso a A Bigger Splash di Guadagnino, a fianco di attori del calibro di Tilda Swinton e Ralph Fiennes. Come cambia, per un’attrice, il suo lavoro all’interno di un set?
«Mi piacerebbe tanto che fosse più facile passare da un mondo all’altro, come succede in altri paesi, come forse sta cominciando a succedere ora. La sostanza del lavoro è identica, cambiano l’allenamento e gli strumenti che puoi usare. È un processo di traduzione che può far bene sia al teatro che al cinema».
C’è stato un momento in cui hai capito di essere attrice?
«Per molto tempo ho continuato a dire che si trattava di un semplice momento di passaggio, ma a livello profondo credo di averlo saputo molto presto. Agire in senso teatrale davanti a qualcuno, parenti o amici; interpretare un personaggio o narrare qualcosa; fare le imitazioni, essere posseduta da qualcuno che ti piace mimare: queste attività le ricordo da sempre, fin da piccola».
Chi imitavi?
«Fracchia! (ride) Mi faceva ridere e mi commuoveva. Anche Gian Burrasca e Gianni Morandi. Figure che mi piacevano da morire e che sentivo il bisogno di imitare. E che mi venivano richieste dai parenti».
Cosa te ne pare del panorama teatrale italiano contemporaneo attuale?
«Data la situazione del paese, il panorama è miracoloso. Vedo fiorire compagnie, artisti, vedo progetti, entusiasmi, desideri. Poi, naturalmente ci sono le contraddizioni: mi pare che si valutino come nuovi pensieri e progetti che a me suonano un po’ vecchi, forse perché non si fa abbastanza tesoro della storia teatrale che abbiamo. E poi mi piacerebbe che non ci fossero quelle crudeli e inspiegabili chiusure e separazioni preventive che riscontro a volte tra le arti, tra i diversi ambienti, tra le persone».

«Solo attraverso la tecnica e lo studio puoi dire di essere davvero libera. Oggi aumenta la consapevolezza intorno al mio lavoro, ma anche
il desiderio di ribaltare, far saltare questa presunzione di sapere»

Che consiglio daresti a una giovane o a un giovane aspirante talentuoso?
«Non mi sento in diritto di dare consigli. Ho visto persone fare le migliori scuole e perdersi, non farle e perdersi; farle o non farle e trovarsi; persone di poco talento riuscire; persone di grande talento fallire. Il mio rispetto è non dare consigli, ma esserci se serve».
Esiste ancora la “Romagna Felix” di vent’anni fa?
«Se penso ad altre regioni in difficoltà, certamente sì. Ma non dimentico che il rischio di un’esperienza felice può essere quello di farne una garanzia di qualità, qualsiasi cosa accada. Quello di perdere dialettica e autocritica. Bene la Romagna Felix e bene le politiche culturali emiliano-romagnole; ma bene anche, per noi che facciamo, aprire lo sguardo, non dare nulla per scontato. L’arte è qualcosa che sfugge alle regole della buona volontà, dell’etica e della politica, benché sia ad esse avvinta. Ci fa lo sgambetto…»
Come definiresti il tuo teatro?
«Forse la cosa più bella che mi sta succedendo è che non so proprio come risponderti. Aumenta la consapevolezza intorno al mio lavoro, ma aumenta anche il desiderio di ribaltare, di far saltare questa presunzione di sapere. Le cose che vincono su tutto sono la curiosità e l’affetto verso il pubblico, lo stupore verso il rito che ci rende simili eppure diversi, vicini, emozionati. Quando vedo qualcosa in fondo agli occhi, quando intuisco il potenziale che aleggia intorno alle persone, sento che la mia energia si moltiplica e diventa progetto… Non appartiene a me questa magia, sono solo un veicolo. Ma se questo avviene, non m’importa dove, io devo essere lì! Una forma di incanto. Tutto ciò che ho imparato serve a questo: togliere gli ostacoli all’incanto».

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